Cambio di scenario sui mercati finanziari. La Federal Reserve potrebbe alzare i tassi di interesse prima del previsto, e cioè entro settembre anziché (come sembrava fino a qualche ora fa) a dicembre. O addirittura a giugno - come emerso dalle minute pubblicate ieri sera (e relative alla riunione di fine aprile) che aprono a questa opzione qualora dal mercato del lavoro arrivino dati robusti. Di conseguenza i gestori stanno iniziando a modificare i portafogli. Comprando dollari, vendendo titoli di Stato Usa e materie prime.
Lo si è visto chiaramente ieri, quando a fine serata il petrolio ha chiuso poco sopra i 48 dollari. Ma il movimento più forte ha interessato il cambio euro/dollaro. Il biglietto verde si è rafforzato fino a 1,122 (il 3 maggio il cambio era a 1,16), toccando i minimi delle ultime tre settimane. Il dollaro si è rafforzato anche sulle altre principali valute, come dimostra l’andamento del dollar index, salito da 94 a 95 punti. Il movimento segue da vicino il dato sull’inflazione di aprile negli Usa pubblicato martedì a +0,4% - maggior rialzo degli ultimi 3 anni - che ha battuto le attese e ha alimentato i timori del ritorno di pressioni inflazionistiche. A ciò si sono aggiunte le parole del presidente della Fed di Atlanta, Dennis Lockhart, secondo cui il mercato sta sbagliando a non prendere in considerazione la possibilità che il costo del denaro possa essere incrementato nella riunione di metà giugno. Nella stessa riunione secondo John Williams, presidente della Fed di San Francisco, «qualche decisione potrebbe essere presa».
Se fino a qualche giorno fa i mercati davano al 4% l’ipotesi di una stretta a giugno, ieri le probabilità sono salite al 30% e, per la prima volta, l’ipotesi di un rialzo a settembre ha superato il 50% (volando al 63% dopo le minute), conquistando la palma di scenario più probabile.
Se alla vigilia le Borse europee avevano accusato il colpo (con Piazza Affari in calo dell’1,34%) ieri invece gli investitori si sono concentrati sul bicchiere mezzo pieno che un rialzo anticipato dei tassi porterebbe: una maggiore spinta ai margini delle banche. Non a caso il settore bancario in Europa (per quanto l’Europa vivrà solo di riflesso una stretta negli Usa considerato che è ancora alle prese con politiche monetarie fortemente espansive, ovvero tassi sottozero e quantitative easing) è cresciuto più di tutti (+1,9%). Il Ftse Mib di Piazza Affari - dove il peso dei bancari è molto più forte - è salito dell’1,23%, facendo meglio della media delle Borse europee (+0,62%).
Stati Uniti ed Eurozona viaggiano su velocità molto distanti, anche sul fronte delle prospettive di inflazione. Quelle a 5 anni (sotto stretta osservazione da parte delle banche centrali perché anche sulla base di queste valutano di volta in volta la politica monetaria) negli Usa hanno superato il 2% mentre nell’Eurozona siamo all’1,46%, ancora lontane dalla soglia obiettivo della Bce «inferiore ma vicina al 2%». Questo spiega anche perché i rendimenti dei titoli europei prezzino tassi molto più bassi (perché incorporano prospettive inflazionistiche inferiori). In questo contesto ieri il Tesoro ha collocato il nuovo BTp a 5 anni indicizzato all'inflazione per un controvalore di 3 miliardi di euro (ma gli ordini hanno superato i 5,7 miliardi) a un tasso annuo reale dello 0,10%, pagato in due cedole semestrali.
.@vitolops
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