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La sindrome da terrorismo globale

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La sindrome da terrorismo globale

Il decollo dall’aeroporto Charles de Gaulle dell’aereo EgyptAir successivo al volo MS804
Il decollo dall’aeroporto Charles de Gaulle dell’aereo EgyptAir successivo al volo MS804

È la sindrome dei nostri giorni pensare a un atto terroristico ogni volta che cade un aereo. Soprattutto se l’aereo era egiziano, se partiva da o era in viaggio per l’Egitto. Non ci sono ancora le prove e probabilmente occorrerà molto tempo per trovarle. Ma dall’America, dalla Russia e da molti altri luoghi, gli “esperti” hanno stabilito che è terrorismo. E comunque lo aveva già deciso la percezione dell’opinione pubblica globale: come le crisi bancarie e le borse, anche il terrorismo è ormai parte della globalizzazione.

Lo ammette fra le probabilità più alte perfino il governo egiziano che nell’attentato del Sinai aveva invece negato la mano degli assassini, nonostante le prove schiaccianti date dai russi; che oggi - sette mesi dopo – ancora non ha pubblicato il rapporto finale di quella strage. È come una forma di rassegnazione: non una resa ma la rassegnazione che della lotta è difficile vedere una possibile fine e che quel nemico sarà parte del loro futuro come del nostro.

Se poi i terroristi sono riusciti a mettere una bomba anche su un aereo in partenza da Parigi Charles de Gaulle, il più bello fra gli scali d’Europa, facendo eventualmente seguito alla facilità con la quale gli estremisti erano entrati nell’aeroporto di Bruxelles per fare la loro strage, in qualche modo l’impreparazione e le falle egiziane sono più che perdonate.

Fra le conseguenze immediate, dando per certo l’attentato, c’è già chi ragiona su come l’Italia ha trattato l’Egitto col caso Regeni. In fondo – si insinua – la morte del nostro ricercatore è stata uno sfortunato effetto collaterale della loro lotta al terrorismo. Avremmo dovuto essere più comprensivi, lasciar correre perché quella lotta riguarda tutti e va combattuta con ogni mezzo, anche il meno ortodosso. Guardate la Russia che picchia duro ovunque ci siano terroristi, dalla Cecenia alla Siria, raccogliendo sostenitori in tutto il mondo. Dopo l’11 settembre anche gli Stati Uniti avevano rinunciato ad alcuni valori fondamentali della loro democrazia: gli americani che invece non avevano mai ceduto e quelli che col tempo si sono ravveduti, chiamano “corto circuito” quella fase oscura della loro democrazia.

Nessuno ha mai messo in discussione che l’Egitto sia in prima linea fra i Paesi aggrediti dal terrorismo e che si debba difendere. Se alla fine ci saranno le prove dell’attentato, l’ultima tragedia dell’Egyptair sarà solo una conferma. Il problema è che le armi più efficaci contro il terrore sono l’intelligence, la prevenzione, le tecnologie, la coesione nazionale, il consenso della società civile. Armi che l’Egitto del presidente al-Sisi non possiede. Alcune rifiuta di averle, reprimendo qualsiasi opposizione civile e ogni forma di Islam politico: sotto la definizione “terrorismo” è stata posta qualsiasi attività umana invisa al regime.
È quello che i terroristi vogliono. La sola reazione della forza totale che fa avvicinare il comportamento degli Stati al livello delle organizzazioni più estreme, è una parte degli obiettivi del terrorismo: gli permette di durare a lungo e perfino di vincere qualche battaglia. È ciò che sta accadendo e continuerà ad accadere.

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