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Una bussola per evitare le tempeste valutarie

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L'Editoriale|Editoriali

Una bussola per evitare le tempeste valutarie

Si può evitare che l’incertezza sulla dinamica dei tassi di interesse e delle valute diventi il detonatore di una nuova crisi finanziaria, che per di più questa volta intrecci sia i Paesi avanzati che quelli emergenti? Sarà una domanda centrale al G-7. Una risposta potrebbe essere quella di ritornare al più presto ad una situazione – come era prima della crisi – in cui il coordinamento internazionale delle politiche monetarie nasceva come risultato spontaneo del fatto che ciascuno dei Paesi avanzati seguiva una regola nazionale di politica monetaria.

Ma il ritorno alla normalità presuppone che il Paese maggiormente deviante – gli Stati Uniti – ripristini quella disciplina monetaria che è oramai solo un lontano ricordo. Purtroppo la convenienza all’opacità della banca centrale americana (Fed), accentuata dall’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, rende il ritorno delle regole monetarie una ipotesi poco probabile. Il che aumenta invece i rischi di ulteriori perturbazioni monetarie e valutarie.

La banca centrale americana continua nella politica della navigazione a vista. Per cui ogni mutamento di una qualunque variabile economica diviene il possibile detonatore di un cambiamento delle aspettative sulla dinamica dei tassi di interesse, e di riflesso delle valute. Nella completa assenza di una regola di condotta, la politica della banca centrale americana – che dovrebbe essere un fattore di stabilizzazione della congiuntura interna ed internazionale – si è invece paradossalmente trasformato in un moltiplicatore di incertezza e di volatilità.

In un sistema finanziario con integrazione dei mercati di capitali e tassi di cambi flessibili, in presenza di una moneta dominante come valuta internazionale – il dollaro – la presenza di una regola di politica monetaria diviene condizione necessaria, ancorché non sufficiente, della stabilità monetaria e finanziaria globale. Se il coordinamento esplicito delle politiche monetarie non è stabilmente perseguibile, l’unica strada è quella delle regole monetarie interne, così come è accaduto nei due decenni che hanno preceduto la crisi.

L’obiettivo delle banche centrali era quello di stabilizzare il ciclo economico, tenendo conto che una crescita economica ed un’inflazione entrambe al due per cento definissero un sentiero di crescita reale e nominale che fosse allo stesso tempo realizzabile ed auspicabile. La regola del due per cento rappresentava una bussola da seguire di fronte ad oscillazioni della domanda e dell’offerta aggregata. Gli shock che creavano surriscaldamenti nei prezzi e/o nei volumi andavano fronteggiati con politiche monetarie restrittive, mirate a modificare verso l’alto la struttura dei tassi di interesse. Nei casi opposti di rischi rilevanti di disinflazione, oppure di caduta della produzione, la politica monetaria doveva divenire più accomodante, spingendo verso il basso il profilo dei rendimenti. I tassi di cambio reagivano di conseguenza, con apprezzamenti nel primo caso e deprezzamenti. È significativo ricordare come regole monetarie e tassi di cambio fossero due facce – è il caso di dirlo – della stessa moneta, richiamando la dinamica tra dollaro ed euro di quegli anni. Fino al 2002 la regola del due fu sostanzialmente rispettata sia negli Stati Uniti che in Europa da parte rispettivamente della Fed e della banca centrale europea (Bce). In quel periodo il tasso di cambio tra l’euro ed il dollaro partì dall’1,17 della nascita della nostra moneta nel 1999 e scese sotto la parità nel 2002, con un deprezzamento dell’euro. Poi però iniziarono gli anni della cosiddetta Grande Deviazione: anche al fine di finanziare la crescita del debito privato, la Fed di Alan Greenspan iniziò una politica monetaria ultra espansiva, in particolare fino al 2005. In parallelo anche la Bce di Trichet attuò una politica accomodante: la politica monetaria rimase più espansiva di quella che sarebbe stata coerente con la regola monetaria; ma tale scelta non provocò effetti negativi immediati sul livello dei prezzi al consumo, visto che la dinamica effettiva rimaneva sostanzialmente coerente con un percorso di crescita stabile del tasso di inflazione. Ma soprattutto l’espansione attuata dalla Fed era molto più aggressiva: gli scostamenti dalla regola monetaria furono molto più marcati e persistenti di quelli osservabili nelle scelte della Bce. In quel periodo l’eccesso di espansione monetaria provocò una sistematico deprezzamento del dollaro; il tasso di cambio dell’euro arrivò nel 2008 a sfiorare quota 1,6 sul dollaro. L’euro forte era il risultato finale dell’indisciplina della politica monetaria americana.

Con lo scoppiare della crisi, tutte le politiche monetarie di qua e ad li là dell’Atlantico divennero ultra espansive, al fine di evitare che la straordinaria domanda di liquidità provocata dall’aumento dell’avversione al rischio di tutti gli operatori non trovasse una corrispondente offerta, con effetti difficilmente calcolabili in termini di rischio sistemico, ed a catena di costi prima finanziari e poi pagati in termini di recessione economica. In un tale scenario – giova ribadirlo – sarebbe stato opportuno tornare anche ritornare ad un coordinamento internazionale esplicito e sistematico delle politiche monetarie nazionali, prima per gestire l’emergenza, poi per tornare alla normalità. Non è mai stato fatto, e difficilmente è possibile che accada in occasione del G-7.

Infatti a partire dal 2013 la politica monetaria americana ha aumentato esponenzialmente la sua ambiguità: il ritorno alla normalità è stato prima temporaneamente legato ad obiettivi macroeconomici; poi, con il cambio della presidenza da Bernanke alla Yellen, la strategia di politica monetaria è stata caratterizzata dalla massima discrezionalità, quindi opacità. L'assenza di regole nella politica monetaria del Paese leader è divenuto un catalizzatore sistematico di incertezza. Il rifiuto della disciplina monetaria non può essere giustificato dalla congiuntura economica. Anche assumendo una situazione macroeconomica straordinaria – ad esempio con un tasso reale di reddittività del capitale pari a zero – è possibile definire una regola monetaria che costituisca una bussola per i mercati, con effetti a cascata positivi anche sulle altre valute. Al contrario, l’assenza di disciplina può trovare ragioni forti nel carattere autoreferenziale che la banca centrale – come ogni burocrazia – può assumere, quando la discrezionalità diventa eccessiva. L’opacità della Fed è in questa fase congiunturale perfettamente spiegabile con la naturale avversione del burocrate a fare scelte rischiose in un momento di incertezza politica e istituzionale come quello della vigilia delle elezioni presidenziali. I mercati hanno compreso che l’opacità e la miopia della Fed sono strategiche, e reagiscono di conseguenza. La ricerca di qualità e di liquidità è ripresa, come sempre avviene quando le acque si intorbidiscono. Soprattutto se a pescare nel torbido è chi dovrebbe invece fornire una bussola.

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