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A pranzo col Financial Times: Carlo Ancelotti

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il personaggio

A pranzo col Financial Times: Carlo Ancelotti

Carlo Ancelotti
Carlo Ancelotti

“Il tedesco è la lingua più difficile”: quando ora è alle prese in un corpo a corpo con i lunghi e difficili nomi composti della nuova località nella quale lavora, Carlo Ancelotti, diretto in Baviera, ricorda la relativa facilità con la quale ha affrontato inglese, spagnolo e francese. “Per non parlare dei verbi…” si lamenta. “Qualche volta in una frase li devi mettere al secondo posto e poi ancora alla fine”. Sbuffa e poi, ecco, solleva l'arcuato sopracciglio sinistro, in quella che è diventata la caratteristica più famosa del suo viso felliniano.
Il cinquantaseienne allenatore italiano di calcio è elegante perfino nella sobria divisa casual degli uomini di successo – giacca blu, camicia azzurra, niente cravatta – e ha un aspetto distinto a sufficienza da ovviare all'eventualità di una caricatura. Questa estate il Bayern Monaco si unirà a Juventus, Milan, Chelsea, Paris Saint-Germain e Real Madrid, diventando la sesta squadra di calcio europea di alto livello a essere diretta da lui. Lui arriverà in volo da Vancouver – dove ha messo su casa con sua moglie, la canadese Mariann – e vincerà i premi più importanti. Lo sappiamo perché ci riesce sempre.

La mano che stringe la mia da Babbo, il ristorante italiano a Mayfair che ha scelto lui per questo incontro, ha sollevato il trofeo della Champions League già tre volte. Si tratta di un vero e proprio record nella storia moderna degli incontri di calcio a più alto livello in Europa. Ancellotti ha avuto successo in quattro paesi. Intriso di gloria, adorato dai giocatori per il suo stile soft, quasi certamente è l'allenatore più richiesto al mondo.

È anche l'unica persona a venirti in mente in grado di scegliere un club accanto ai ristoranti locali. In genere, il cibo ha un ruolo secondario nella maggior parte degli incontri della nostra rubrica “A pranzo con il FT”, ma Ancelotti, un buongustaio, lo rende protagonista del nostro incontro. La mia decisione di ordinare qualcosa di leggero – di solito a pranzo evito addirittura di mangiare – si scioglie al cospetto del suo entusiasmo. Ordiniamo qualche antipasto da dividere, il migliore dei quali è sicuramente la melanzana al forno con uno strato di formaggio che fa quasi passare in desolante secondo piano l'altro piatto, una burrata. “Ti piace il cibo italiano?” mi chiede. Io mi limito ad annuire, deciso a non cercare di convincerlo della superiorità della cucina spagnola.

Dal punto di vista tecnico Babbo è un ristorante eccelso ma… molto Mayfair. Accanto a noi siedono quattro signore anziane con collane di perle e abiti di taffetà, mentre dall'altra parte della sala tra un boccone e l'altro due signori brizzolati di nazionalità non meglio precisata continuano a lanciare occhiate in direzione del mio ospite. Gli faccio il nome di una trattoria più informale a Islington e lo ripete alcune volte, come se cercasse di imprimerselo nella memoria. Non dimentichiamo che quest'uomo ha intitolato la sua autobiografia “Preferisco la Coppa”, dichiarando con una battuta di sole tre parole il suo amore incondizionato per i trofei e i salumi.

Gli italiani in qualche caso sono devoti in modo inderogabile alle specialità gastronomiche della loro regione, ma Ancelotti, cresciuto in Emilia Romagna, si spinge ad amare i vini toscani. Ordina quindi una bottiglia di Guidalberto – “Non ho bisogno di assaggiarlo, conosco bene questo vino” –, ottenuto da Cabernet Sauvignon e Merlot e che imita la robustezza di un claretto senza scaraventarti in un coma senza fine.

Per Ancelotti le squadre di calcio appartengono a due categorie: le “famiglie” come il Milan o le “società” come la Juventus. Con il suo stile affabile e col modo garbato e tranquillo che ha di coltivare i legami personali con i giocatori e i dirigenti, è chiaro quale preferisca. Silvio Berlusconi ha guidato il Milan come un patriarca, interessandosi da vicino alle questioni tecniche. La famiglia Agnelli, tuttora proprietaria della Juve, ha invece preferito mettere in atto dei sistemi e tenersi in disparte, dando opinioni strategiche. Quando solleva il bicchiere, gli chiedo a quale categoria crede che appartenga il Bayern. “Non ci siamo incontrati molte volte, per ora, ma credo che possa appartenere alla categoria ‘famiglia'” dice, forse con ottimismo se pensiamo che la squadra è di proprietà di Audi, Adidas e Allianz. “Nel loro consiglio di amministrazione ci sono ex giocatori: al 70 per cento la squadra è di loro proprietà” aggiunge.

Nella sua implacabile ricerca di giocatori, di sicuro la squadra agisce come una grande corporation. Mi domando chi Ancelotti consideri tra gli astri nascenti del mondo del calcio, ed ecco che il suo famoso sopracciglio si solleva di nuovo. “Non posso dirtelo ufficialmente, perché altrimenti il loro prezzo sale” dice prima di farmi i nomi di un paio di adolescenti, un francese e un brasiliano. Sullo smartphone mi mostra addirittura l'immagine del secondo, pregandomi di “non dirlo ad Arsène Wenger!”.

Si mostra più aperto a proposito dei grandi calciatori affermati che ha già diretto. Mostra un affetto particolare per Cristiano Ronaldo, quasi un cyborg in grado di motivarsi da solo, che nel complesso del Real Madrid nel quale si allenavano faceva bagni freddi alle 3 di notte. “E li faceva anche quando Irina Shayk lo stava aspettando a casa!” esclama Ancelotti, riferendosi all'ex amante del portoghese. “A lui non interessano i soldi, ma soltanto essere il numero uno”, ossia il migliore. Tra i suoi calciatori prediletti vi sono anche Andrea Pirlo, che ha giocato nel ruolo di centrocampo come lui stesso per il Milan e la nazionale italiana negli anni Ottanta, e Gigi Buffon, il pluripremiato portiere italiano (“Lo scoprii a 17 anni nella giovanile del Parma”).

Abbiamo entrambi ordinato l'aragosta e il piatto si rivela essere composto da un bel pezzone sfilettato di crostaceo adagiato su una montagna di tagliolini. Come tutta la pasta migliore, è appetitosa più per la consistenza che per il gusto. Non avendo un sapore potente col quale competere, il vino scelto da Ancelotti all'improvviso si rivela perfetto. Come se lui avesse l'abitudine di scegliere questo abbinamento.

Prima di incontrarlo a pranzo, ho messo alla prova alcuni amici che si disinteressano di calcio o lo seguono poco, pur sapendo distinguere José Mourinho da Pep Guardiola, facendo loro il nome di Ancelotti. La maggior parte non ne aveva mai sentito parlare. Due hanno dato per scontato che io stessi parlando di Claudio Ranieri, del Leicester City. Uno aveva già sentito il suo nome, ma non riusciva ad abbinarlo a un volto. La sua mancanza di incisività – che come tutte le cose della vita non riesce a intaccare quest'anima serena – è dovuta al tipo di leadership tranquilla che è diventata anche il titolo del suo nuovo libro (“Leadership silenziosa: vincere cuori, mente e partite” NdT)

La maggior parte degli allenatori migliori di oggi è infervorata. C'è Diego Simeone dell'Atlético Madrid, con i suoi modi “bandit chic”. Il Liverpool include, a stento, il calor bianco dell'entusiasmo di Jürgen Klopp. Guardiola sta trasferendo la sua energia alla Rasputin dal Bayern al Manchester City. Ancelotti, invece, è esente da tutto ciò. “Ho un carattere tranquillo” dice calmo. “Dipende tutto dalla mia famiglia: mio padre era calmo, non gridava mai, non mi ha mai preso a calci. E così pure mia madre. Al loro modo di essere devo quello che sono”.

Nel suo libro descrive un manager che esorta, più che spingere, e che spesso si allinea alle conclusioni raggiunte indipendentemente dai suoi giocatori, più che dettar loro le sue. I leader di una squadra, dice, sono “scelti dal gruppo, non dall'allenatore o dal presidente”, e al Milan uno di questi era l'olandese Clarence Seedorf. Negli anni passati al Milan, Ancelotti ha dovuto stipare una galassia di talenti in quattro posizioni a centrocampo. Sotto la sua guida garbata, i calciatori immaginavano di giocare in una formazione “a diamante” – con Pirlo alla base, il brasiliano Kaká alla punta e Seedorf e Manuel Rui Costa, un portoghese estremamente dotato, ai lati – che brillava sulla scena europea.

Tra un sorso e l'altro gli chiedo se si sente poco apprezzato, quantomeno al di fuori del mondo degli esperti di calcio. “La possibilità di arrabbiarsi si presenta tutti i giorni. Tuttavia, la felicità non sta nel merito ma in ciò che fai, nel rapporto che instauri con i giocatori e lo staff. Non mi preoccupo di quello che scrivono sui giornali, se è questo che intendi”.

Sono tanti i personaggi pubblici a dire quello che lui ha appena detto, ma Ancelotti ci crede davvero. Se non altro, non essere sotto i riflettori significa godere di più privacy, soprattutto in Canada. Pur avendo trascorso interi decenni nelle campagne italiane e nelle più splendide città d'Europa, resta senza parole davanti alle bellezze paesaggistiche dell'area di Vancouver, “la spiaggia, le montagne…”.

Non dà per scontati gli agi materiali. Gli Ancelotti hanno sempre lavorato nella tenuta agricola nella quale è cresciuto, e nella quale si producevano forme di Parmigiano per tutto il mondo, che è loro grato per questo. Ma la sua famigli non ne è mai stata proprietaria. La vita rurale gli ha lasciato un fine palato (ha una sorta di mappa mentale di ristoranti italiani che vale una fortuna a Londra, Parigi, Vancouver e Parigi) e parla un dialetto che potrebbe lasciare disorientati perfino i suoi connazionali.

Ossessionato e pazzo per il calcio, da vero italiano, ha iniziato la sua carriera come centrocampista tatticamente scaltro nella vicina Parma. Da lì è andato a Roma, la capitale, che per quel ragazzo di campagna avrebbe potuto essere anche un altro pianeta. Un infortunio al ginocchio lo ha escluso dalla Coppa del Mondo del 1982 che l'Italia vinse, ma in lui non è rimasta amarezza, soltanto gratitudine per una carriera che è andata avanti. Con una smorfia ricorda: “Pensa: hai 23 anni e non sai se potrai tornare a giocare. E a quei tempi la fisioterapia era terribile!”.

Nel 1987 Ancelotti ha preso la decisione che gli ha cambiato la vita. Il tanto deriso Arrigo Sacchi lo ha portato al Milan. Fino ad allora, gli italiani avevano sempre privilegiato un sistema difensivo di gioco detto “catenaccio”. “Alludeva a una cosa del genere” mi spiega, chiudendo il chiavistello di una porta accanto al nostro tavolo. Sacchi ruppe le convenzioni addestrando i suoi giocatori a competere per la palla – “il pressing” – in avanti nel campo, costringendo gli avversari a commettere errori e sfruttandoli con una serie letale di attaccanti stranieri come il grande olandese Marco van Basten. Ancelotti era il punto fisso di questo sistema, che ha dominato in Europa e tuttora ispira gli allenatori moderni.

Alla fine si è visto che Sacchi non era da prendere sottogamba. Il suo pressing è usato ancora oggi, dal Liverpool al Monaco. Alcuni dei giocatori più richiesti sono centrocampisti che di rado segnavano un gol o servivano assist, ma avevano sangue freddo e capacità di controllare la palla e mantenerla anche sotto forte pressione. Per reggere allo sforzo fisico imposto dalla tecnica di Sacchi, le squadre hanno dovuto migliorare notevolmente le loro condizioni fisiche.

Giocando al Milan, Ancelotti è stato una sorta di convogliatore in campo di queste visioni. Un centrocampista arretrato deve pensare alla partita in modo sistemico, tattico, quasi fosse l'allenatore. Dopo una stagione o due in quella posizione, è pressoché pronto un collegamento diretto con un futuro da manager. Non a caso, Simeone e Guardiola da giocatori sono stati maestri in quel ruolo. Certo, dopo aver aiutato Sacchi a portare l'Italia alla finale dei Mondiali di Calcio del 1994, Ancelotti è tornato alle sue radici per iniziare la sua carriera da allenatore: prima alla Reggiana poi al Parma.

Il successo lo ha portato alla Juventus e alle società nelle posizioni più in alto di ogni classifica. E da allora non è mai sceso da lassù. C'è stato il Milan, dove ha conquistato due delle sue Champions League e ha messo insieme un glorioso centrocampo. Poi è stata la volta del Chelsea, dove nella prima stagione ha vinto sia il campionato sia la coppa. E poi ancora il Paris Saint-Germani, dove ha vinto il campionato e ha imposto standard professionali a una squadra che aveva più ambizioni che capacità (“Niente ristorante per i calciatori”). E infine, due anni fa, la decima: la decima Champions League per il Real Madrid e la tripletta per Ancelotti.

In sintesi: nessuna rivoluzione tattica, nessun espediente psicologico, nessuna citazione memorabile. Soltanto un successo liscio e agevole in tutti i più importanti campionati d'Europa. Nessuno ha un record simile al suo. Zlatan Ibrahimovic, giocatore che si abbandona ai complimenti quasi dovessero rischiare di bruciargli in gola, dice che Ancelotti è il miglior allenatore al mondo.

E per quanto riguarda gli ego stratosferici dei calciatori, come fa un uomo così tranquillo a piegarli al suo volere? “Su alcune cose si può essere elastici” spiega. “E su altre cose si deve essere rigidi. Se i calciatori mi dicono: ‘Coach, abbiamo avuto una settimana dura, possiamo dormire un'ora in più domattina?' allora va bene. Ma quando c'è una riunione pre-partita ci si deve presentare in orario. Al Chelsea una volta era stata fissata una riunione per le 10.30 e Didier Drogba non si era presentato. Non so se dipese dal traffico o da altro, ma arrivò alle 11. Bene, lui non giocò”.

Se gli manca il fuoco addosso, Ancelotti vi sopperisce più che bene con il buonsenso. Un profondo buonsenso. La sua leadership silenziosa, a giudicare dal suo nuovo libro e dai suoi modi personali, è una predisposizione, una sorta di aura che lo ammanta, più che una tecnica alla quale ricorre. Fermo e saldo ben dritto nel marasma di battage e di cupidigia, rassicura i giocatori. Allena come giocava, offrendo sempre quel punto fisso dal quale altri possono compiere cose spettacolari. La squadra del Chelsea del 2010 non era poi così diversa da quella che aveva mancato il successo per un soffio nelle tre stagioni precedenti. Il talento c'era già. Ancelotti ha saputo metterlo a frutto.

Le critiche al suo stile non mancano: Ancelotti, seppure meno provocatorio di Mourinho, in definitiva sarebbe soltanto un mercenario professionista, si infiltra nelle grandi squadre, vince premi adeguati al loro status e se ne va senza lasciare un imprinting dietro di sé. Non lo si associa a uno stile di gioco particolare, come avviene per Guardiola, o a una nidiata di giovani da lui allevati fino a farli diventare grandi campioni, come accadde a Klopp nel periodo presso il Borussia Dortmund. Stranamente è senza identità. Come un ristorante a Mayfair.

Forse è proprio questo di cui c'è bisogno per vivere una vita itinerante. Egli si è spinto oltre, ha visto più cose di quante le sue radici potessero far presagire. Lo sollecito, gli chiedo qual è la sua assegnazione preferita. “La Francia è difficile perché il calcio non sempre viene al primo posto: hanno anche il rugby e il ciclismo. E al PSG c'è anche violenza. In Inghilterra ci sono un'atmosfera migliore, stadi migliori e nessuna violenza” dice. Malgrado abbia lasciato l'Italia sette anni fa, lo addolorano ancora i disordini nei quali precipitano gli incontri del campionato e le fatiscenti infrastrutture, che negli anni Novanta erano le migliori in Europa.

“In Inghilterra la situazione è diversa. Quando ero al Chelsea, una volta andammo a giocare nel Sunderland, ma dato che l'autobus non riusciva a passare e a portarci all'ingresso dello stadio, l'addetto alla sicurezza dello stadio disse: ‘Ok, è tutto a posto, scendete e proseguite a piedi'. Io risposi: “No, non fatelo! Ci sono fan del Sunderland tutto intorno!'. Dopo un po', però, dovemmo fare così come ci aveva detto”.
E andò tutto bene?
“Alla perfezione. Alcuni fan scattarono foto. Ma non ci fu problema alcuno. In Inghilterra non ho mai ricevuto un insulto. Neppure uno”.
Ordiniamo i caffè al posto del dessert, ma prima che il cameriere vada a prenderli, Ancelotti ha un'idea: “Ti piace la grappa?” mi chiede. Sì, Carlo. E così quello che era iniziato come un ascetico rifiuto di zuccheri e dolci si trasforma in un'orgia di caffeina, piccoli pasticcini e la risposta italiana allo sherry. Ho cercato di pagare il conto, ma Ancelotti si era già messo d'accordo con il proprietario. Quanta posatezza. Quanta efficienza.

Traduzione di Anna Bissanti
Janan Ganesh è columnist politico del FT

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