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È la Francia il Paese europeo più impermeabile al cambiamento

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È la Francia il Paese europeo più impermeabile al cambiamento

Il contrasto, ieri, era flagrante. D’un lato c’erano le notizie in arrivo da Atene, con il Parlamento che ha approvato un ulteriore pacchetto di riforme strutturali, indispensabile al possibile accordo di oggi all’Eurogruppo. Dall’altro le immagini di una Francia presa in ostaggio dalle rivendicazioni oltranziste di alcune organizzazioni sindacali, che pretendono il ritiro della legge sul mercato del lavoro. Ma non è solo la Grecia ad aver accettato di dover cambiare. Lo hanno fatto il Portogallo, la Spagna, l’Italia, l’Irlanda. E ben prima di loro la Germania, negli anni in cui Parigi andava in senso contrario alla storia, facendo la scellerata scelta delle 35 ore. Possibile che solo la Francia resista? Che solo la Francia non riesca a fare le riforme strutturali che tutti le chiedono e di cui avrebbe urgente bisogno per uscire dalle secche di una crescita molle e di una disoccupazione ormai cronicamente alta?

Non solo è possibile, è la realtà. In oltre quattro anni di presidenza Hollande, l’unica vera riforma realizzata è quella della liberalizzazione del trasporto passeggeri su gomma. Che certo sta dando i suoi frutti. Ma è francamente un po’ poco. Nella stessa legge che ha spalancato il settore ai privati c’era anche la possibilità di aprire i negozi di domenica e la sera in alcune zone turistiche. Per esempio il centro di Parigi, dove nei giorni festivi i turisti rimangono di stucco davanti alle serrande abbassate delle Galeries Lafayette, del Printemps o del Bon Marché. Niente da fare. A distanza di un anno il “niet” sindacale prevale ancora. E che dire, appunto, della riforma del mercato del lavoro. Presentata all’inizio dell’anno, la legge era molto promettente. Una vera, piccola rivoluzione per un Paese ingessato, arcaico e ipergarantista. C’era il tetto alle indennità di licenziamento. C’era la possibilità per i gruppi multinazionali di varare un piano di ristrutturazione legato all’andamento del singolo impianto francese e non ai conti globali. C’era la relativa libertà di rendere flessibile l’orario nelle Pmi. È bastato che gli studenti scendessero in piazza e i sindacati facessero la voce grossa perché il Governo – un Governo delegittimato dall’impopolarità, dalla mancanza di coraggio e dai propri tentennamenti - inserisse la retromarcia. Quelle disposizioni sono scomparse. Ma non è stato sufficiente. Pur edulcorata (rimangono i criteri sul licenziamento “economico” e la possibilità per le aziende di concordare una ridotta maggiorazione delle ore di straordinario), la legge è ormai diventata oggetto di scontro tutto politico. Con il Governo da una parte e dall’altra i sindacati radicali, l’estrema sinistra, la fronda socialista. E ancora non si sa come andrà a finire. In Parlamento e nelle piazze, dove le violenze sono ormai routine. «C’è una Francia che lavora – ha detto ieri il ministro dell’Economia Emmanuel Macron – una Francia che produce, una Francia che crede nel proprio futuro e bisogna lasciare che avanzi». Parole sante. Ma che per ora si scontrano con le resistenze di un’altra Francia. Quella che non vuole accettare il cambiamento, che rifiuta di mettersi in gioco, che ha paura di perdere privilegi, garanzie, vantaggi acquisiti. Che difende con ogni mezzo. Anche quelli del ricatto e del sopruso.

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