È il mercato, bellezza. E non ci possiamo fare niente se invece di regolarlo, come è giusto, tentiamo di ostacolarlo con atteggiamenti corporativi. L'Europa, dalla Francia all'Italia alla Germania, è piena zeppa di microprotezionismi di categoria.
Prendiamo la solita Germania. Sarebbe un’economia (quasi) perfetta se non avesse due difetti ormai strutturali che tutti - economisti, istituzioni internazionali - le rimproverano. Primo, un sistema bancario atipico, dove i grandi erogatori di credito all’economia reale sono in realtà casse di risparmio e cooperative, legate indissolubilmente a potentati politici locali. Secondo, un settore dei servizi ultraprotetto in molte categorie professionali, dai notai agli avvocati, per finire con gli spazzacamini, corporazione artigianale antichissima e chiusissima, tanto per citare un aspetto un po’ più sconosciuto e marginale del problema. Ora accade che le grandi società della sharing economy, o dell’economia collaborativa, incontrino un gradimento sempre più elevato tra i consumatori. Lo confermano le cifre rese note ieri nelle linee guida formulate dalla Commissione europea: questo settore cresce secondo una progressione geometrica. L’anno scorso le piattaforme digitali di condivisione di servizi come Uber o Airbnb hanno generato complessivamente in Europa un reddito lordo di 28 miliardi di euro, il doppio rispetto al 2014. Un sondaggio di Eurobarometro afferma che un cittadino dell’Unione su sei è già cliente di una società attiva in questo settore. La stessa Commissione nelle linee guida - non vincolanti - riconosce un principio importante. E cioè che tali piattaforme non avrebbero l’obbligo di richiedere autorizzazioni e licenze quando si limitano ad essere degli intermediari tra il consumatore e l’offerta di servizio. I governi nazionali, compreso quello italiano e francese, subiscono forti pressioni corporative, come nel caso dei tassisti contro Uber, ma devono attrezzarsi al più presto per fornire un nuovo quadro normativo. Che sia semplice, trasparente, con l’impegno preciso e prioritario di tutelare il consumatore; che metta i giganti del settore davanti alle proprie responsabilità fiscali; ma che non favorisca le lobby precostituite con ostacoli burocratici al business.
Proprio perché questo business corre, non ha confini e ha un grande successo di pubblico, va regolamentato in maniera flessibile e intelligente: se ostacolato rischia di travolgere. Il fondo sovrano dell’Arabia Saudita, in cerca di diversificazione del proprio portafoglio d’investimenti, ha scommesso 3,5 miliardi di dollari su Uber mentre Apple si è alleata con la rivale cinese di quest’ultima, Didi Chuxing, e Volkswagen ha messo sul piatto 300 milioni in un’altra concorrente internazionale sempre di Uber, l’israeliana Gett. Tutti questi - e altri - movimenti ci dicono che il futuro è già passato. Molte di queste attività inoltre si declinano anche su scala ridotta, regionale o ancora più locale, e in un periodo di crisi economica senza precedenti sono servite ad abbassare il costo di molti servizi o a creare fonti di reddito alternative o integrative (Airbnb). Sarà compito dei governi vigilare sulla trasparenza, sull’accountability (sotto il profilo fiscale e della responsabilità civile) di queste società perché rendano più efficienti ed equi i nostri sistemi economici.
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