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Suspense in California, Hillary si gioca la candidatura. Trump misura…

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sanders avanti nell’ultimo sondaggio

Suspense in California, Hillary si gioca la candidatura. Trump misura la sua forza

Nel 2012 sulla fiancata del tram che il comune di San Francisco ha comprato a Milano e porta a Castro, quartiere delle rivendicazioni omosessuali oggi popolato da vecchie coppie che si ritrovano alla piazzetta del bar, c'era solo un cartello che segnalava l'elezione del presidente degli Stati Uniti: «be a voter». Chiedeva semplicemente di andare a votare, cosa mai scontata in America come scontato è di solito il risultato in California, roccaforte democratica. Qualche giorno dopo la conferma di Obama per il secondo mandato, in uno studio legale in Market Street, si riuniva un gruppo di repubblicani per discutere del risultato. Una lunga tavola ovale attorno a cui erano seduti pingui avvocati di mezza età, giovani lobbisti, attenti imprenditori della zona. Nessun atto di contrizione, atmosfera rilassata, qualche cravatta sgargiante, ottimi sandwich con il manzo locale, riflessione sul voto. Non l'analisi della sconfitta ma un serio dibattito sui cambiamenti demografici, più evidenti in uno Stato ormai bilingue in cui lo spagnolo si sente quanto l'inglese, dunque il peso crescente degli ispanici, oggi il 40% della popolazione, cosa ciò avrebbe significato alle prossime elezioni, soprattutto come doveva cambiare il partito repubblicano.

Quattro anni dopo, questo quadro è caduto dalla parete, spazzato via dalla battaglia Clinton-Sanders da una parte e dalla ruspa Trump dall'altra. Hillary sa che non avrà la scontata valanga di voti perché il “socialista” Bernie andrà presumibilmente forte, c'è già chi ne preconizza la vittoria; The Donald da mesi vanta impensabili sostenitori persino «fra i suoi amici di Hollywood di solito liberal».

Alle primarie del 7 giugno 2016 lo Stato che due anni fa registrava un Pil comparabile a quello del Brasile e da solo rappresenta la settima economia del mondo, non è più un passaggio elettorale scontato. Nella notte elettorale del 2012 al quartier generale democratico, schiere di giovani volontari si staccavano dalla retorica della conquista del consenso online e si attaccavano al telefono per chiamare uno a uno gli elettori dell'Ohio, stato incerto e decisivo per eccellenza, obiettivo convincerli a votare Obama. Quest'anno non si sa che fine farà quell'unità di partito, gioventù e intenti, alla prova della sfida Clinton-Sanders calamita di giovani e sinistra del partito. Quello che rimane del pacioso partito repubblicano californiano è nelle mani di Trump.

A quattro giorni dal voto dello stato più popoloso degli Stati Uniti, Clinton appare forte coi discorsi - nei quali attacca più Trump che Bernie - ma debole coi numeri: Sanders è avanti di un punto, 44% contro 43% di Hillary secondo un sondaggio USC Dornsife/Los Angeles Times diffuso oggi. Negli ultimi giorni di campagna elettorale, questo segnale di rischio per Hillary è preceduto dalla foto di Oakland su Google Maps in cui si vede una fila chilometrica di gente che vuole sentire Sanders (la fila era lunga sei blocchi, la foto circolata sui siti è qui nella fotogallery, il comizio nel video in alto).

Altri sondaggi danno Hillary avanti di due punti su Bernie, margine troppo stretto per stare tranquilli soprattutto perché la candidata sinora «inevitabile» era avanti dieci punti fino a non troppo tempo fa.

Nel maggio 2015, prima che ufficializzasse la sua corsa, Clinton era stata eletta a furor di donazioni candidata della Silicon Valley. Ora la sfida è dura e la posta in gioco importante, perché vero è che a Hillary mancano una ventina di delegati per conquistare la nomination ma è anche vero che la California ha troppi delegati e un risultato non brillante o negativo potrebbe accreditare le tesi di chi la vede vincente ma debole e rinvigorire chi vuol farle guerra fino alla convention democratica del 25 luglio a Philadelphia.

Decisivo sarà il voto degli ispanici qui minoranza solo nominalmente. Il Wall Street Journal sostiene addirittura che se perde la California, Clinton perderebbe anche la nomination, e a livello nazionale la media dei sondaggi la darebbe già dietro Trump. Il quale fa campagna e comizi in California anche se non ha avversari da battere perché dice che a novembre le due coste del Paese tradizionalmente democratiche saranno sue, a dispetto della demografia che lo condanna, in questi Stati sono forti le minoranze, quindi è debole lui.

In California più che altrove perde sempre più senso il paragone Reagan-Trump. Quando l’attore Reagan sfidò il politico Pat Brown per l'elezione a governatore, prometteva meno tasse e meno burocrazia ad un elettorato in maggioranza bianco, era il 1966 e Reagan si scagliava contro una sola categoria che a sua volta lo detestava, gli studenti nei campus.

Oggi c'è la fila di quelli che si sentono o sono stati insultati da Trump, protestano in tutta la California da mesi, due giorni fa a San José hanno sfilato con centinaia di bandiere messicane e bruciato i cappellini rossi simbolo della campagna. Donald li definisce «criminali» e scrive su Twitter che folle di californiani lo amano di amore immenso, a Sacramento sono spuntati cartelli «Latinos for Trump» (pure su Twitter, sarebbero gli ispanici immigrati legali che si vogliono distinguere dagli altri); l’unico dato oggettivo per ora è che nella media dei sondaggi di RealClearPolitics Trump era nettamente avanti rispetto a Cruz e Kasich- 56,3% contro 17,7 e 14,3 degli altri due - ma gli sfidanti hanno abbandonato la corsa e lasciato che Donald si presentasse già trionfante nel Golden State.

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