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Dubbi e timori dell’Italia che fa affari a Londra

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Dubbi e timori dell’Italia che fa affari a Londra

LONDRA - «Ma lei sa che cosa significa un Paese che garantisce il rispetto delle scelte fatte dalla politica sia a livello nazionale sia a livello locale ? Se questi prendono una posizione la mantengono». Muoversi in un mondo di certezze è valore immenso per un imprenditore. Un mondo - la Gran Bretagna di oggi - che Brexit promette di buttare all’aria, sfilando le carte più basse del castello, quelle che portano il peso di tutta la costruzione di relazioni politiche bilaterali. Renzo Gibellini è amministratore delegato e fondatore di Reflex Allen, settore automotive, più di 100 milioni di euro di fatturato, 40 almeno nel regno di Elisabetta. Guarda a Brexit con gli occhi sugli impianti ex Indesit del Galles che sta adattando alla sua produzione. Ha avviato l’investimento, ma tutto è ora appeso al destino del voto. «Per noi la Gran Bretagna è importante perché è hub per l’Europa, sulle piazze del continente finisce il 75% della nostra produzione britannica. Se ci sarà Brexit dovremo limitarci al solo mercato interno». In teoria un quarto di quanto producono ora. E con l’incognita sul destino dell’automotive made in Uk, ovvero sul destino dei produttori stranieri che hanno delocalizzato in queste contee quando era inimmaginabile il ritorno di barriere doganali.

La storia di Vittorio Genna è un testacoda strategico. È il co-fondatore di Ala, l’impresa aerospaziale da 100 milioni di fatturato che nel pieno del dibattito sul referendum del 23 giugno ha comperato la britannica Stag. Le oscillazioni di questi mesi della sterlina avranno magari aperto varchi per un buon deal, ma la mossa ha il sapore di un atto di fede nella permanenza del regno nell’Unione. «Un imprenditore deve avere una visione ottimistica e per noi questa acquisizione significa internazionalizzazione. Il nostro obbiettivo è il mercato europeo, ma qui hanno anche sede Rolls Royce e Ba Aerospace. Non ci siamo fermati per una semplice ragione: questo Paese sa bene che affidarsi alle reazioni di “pancia” non porta da nessuna parte». Un atto di fede, appunto, scommessa con un discreto grado di rischio ora che le cassandre - siano essi allibratori o finanzieri della City- assegnano al divorzio anglo-europeo il 30% di possibilità.

Brexit and Italy, fra chi tira il freno per capire come butta e chi raddoppia nella speranza che butti bene. Se dalle imprese di taglia contenuta ci si muove verso quelle maggiori il tono non cambia. «Abbiamo avviato – precisa Antonio D’Amato, ex presidente di Confindustria e presidente di Seda, azienda leader nel packaging, al convegno “Triple I – Italian Imaginative Innovators” organizzato dall’ambasciata italiana a Londra - un importante investimento in Galles e continueremo, al di là dell'esito del voto anche se le dimensioni cambieranno nell’eventualità, assolutamente negativa, di Brexit. Negativa per l’Europa e per il Regno Unito, che si troverebbe a diventare marginale». Prospettiva infausta davvero per un Paese che ha fatto il pieno di investimenti esteri diretti, coniugando i vantaggi della lingua e della flessibilità all’adesione al single market. Infausta per i partners – e anche su questo imprese grandi e piccole concordano – perchè l'esigenza oggi è di un’ Europa che avanza, meglio se tenendo a mente la lezione inglese, fatta di deregulation e liberalizzazione.

La scena muta una volta di più se guardiamo alle relazioni commerciali, storicamente sbilanciate a favore dell’Italia che ha un saldo di 10 miliardi di euro circa. Nel 2015 l’Italia ha esportato nel Regno Unito beni e servizi per 20 miliardi di euro, in flessione del 5% circa rispetto al boom del 2014. Negli ultimi anni, dopo la lunga notte della crisi post Lehman, l'interscambio anglo-italiano è comunque cresciuto con le regioni del nord, dal Veneto all’Emilia, a tirare la volata al resto del made in Italy. Il food and beverage da Londra a Manchester parla sempre di più la nostra lingua.

«Che cosa accadrà al vino italiano in caso di Brexit ? Potenzialmente, un disastro». Luca Botter, della Casa vinicola Botter di Venezia, azienda di famiglia fra le top ten d’Italia nel settore, capace di esportare più di dieci milioni di bottiglie solo nel Regno Unito, disegna uno scenario a breve e uno a più lungo termine. «La caduta della sterlina in caso di no all'Europa avrebbe un primo impatto fortemente negativo per chi, come noi, fattura in euro. Ma lo scenario più preoccupante è quello di medio termine se, cioè, a conclusione dei negoziati euro-britannici scattassero dazi sul vino italiano e della Ue, ma non, ad esempio, su quello di concorrenti come Cile e Sudafrica».

Quando dalla manifattura e dal commercio ci si sposta ai temi cari all’economia locale, servizi finanziari e banking, la realtà prende una piega ancora diversa. Massimiliano Cattozzi, responsabile del network internazionale della divisione Corporate e investment banking di Intesa Sanpaolo che ha sede a Londra, da dove coordina anche l'hub europeo, vede rischi limitati per le banche italiane nel Regno Unito. Valutate, ovviamente, solo attraverso la lente dell'istituto in cui opera. «Tenendo conto – spiega - del periodo di transizione che intercorrerà tra l’esito del referendum e l’eventuale, reale uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea (2 anni, ndr), il gruppo definirà il proprio posizionamento nel nuovo contesto quando saranno state chiarite le norme e le procedure che regoleranno i rapporti tra la Gran Bretagna e la Ue. Ad ogni modo, in caso di Brexit “radicale”, avremo una branch a Londra - come già in altre parti del mondo - fuori dall’Unione europea. La clientela non ha manifestato particolare preoccupazione. Il nostro approccio è motivato anche dal fatto che il 15-20% del conto economico di una nostra branch estera è legato all'operatività italiana, mentre l’80% è legato a banche e corporate internazionali. Queste ultime, in caso di condizioni sfavorevoli non avrebbero difficoltà a indirizzare altrove attività in derivati, emissioni sui mercati e quant'altro. Dove ? La destinazione naturale sono gli Stati Uniti».

Mentre gli americani Goldman Sachs, Morgan Stanley, Jp Morgan minacciano di muovere pezzi di business fuori da una Londra incapace di garantire il passaporto europeo, mentre Citigroup ha già traslocato attività in Irlanda, altri operatori indipendenti della City si sentono tutelati dalle logiche globali. «Dublino è per molti la destinazione naturale. La lingua, la vicinanza, la normativa fiscale, il fuso orario sono tutte ottime ragioni», spiega, ragionando sull'impatto globale, Vittorio Pignatti ex Lehman, socio fondatore e chairman Europe del fondo di private equity Trilantic capital partners, molto attivo in Italia e che, a Londra, ha un terzo di Marex, il maggior broker indipendente di commodities. «Come ci prepariamo noi ? Un po’ di hedging sulla sterlina per la gestione dei costi, perché i ricavi sono in dollari. Molto diversa la prospettiva, ovviamente, per le imprese manifatturiere. E' logico che riconsiderino o riducano gli investimenti».

O accettino, per altri quindici giorni, di trattenere il respiro in attesa di capire il mondo che verrà.

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