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Non solo Brexit tra i dolori dell’Unione, ecco le sei spine nel fianco

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Non solo Brexit tra i dolori dell’Unione, ecco le sei spine nel fianco

«Esiste un rimedio che in pochi anni renderebbe tutta l'Europa libera e felice, con una struttura che le consenta di vivere in pace, sicurezza e libertà. Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d'Europa». Era il 1946 e il britannico Winston Churchill si rivolgeva così agli studenti dell'Università di Zurigo. Per Londra l'adesione al club è arrivata solo nel '73 e i rapporti con gli altri partner sono stati sempre altalenanti. Chissà che cosa penserebbe Churchill oggi nel vedere che i suoi sogni rischiano di infrangersi con il referendum sulla Brexit.

Tra dieci giorni, il 23 giugno, i cittadini britannici dovranno infatti scegliere se restare nell’Unione europea o se voltare pagina. L’ipotesi di una Brexit è però solo l’ultima spina che si è conficcata nel fianco della Ue e ne minaccia l’identità. Ce ne sono almeno altre cinque che possono rappresentare un rischio per la tenuta dell’area: il continuo allarme di una Grexit - l’abbandono della Grecia -, la crescente affermazione dei partiti anti-Ue, lo scricchiolio dell’area Schengen, la complessa governance economica e il cantiere incompleto dell’Unione bancaria.

«Il rischio di Brexit - dice l’economista del think tank Bruegel, André Sapir - è il più imponderabile: se Londra sceglie l’addio alla Ue si apre un periodo di grande incertezza e si sconfina in una terra sconosciuta, con implicazioni politiche ed economiche. Se resta, i pericoli saranno minori, ma le incognite non mancheranno, perché la frattura si è consumata e dovranno essere ripensati i rapporti tra la Gran Bretagna e la Ue.

“Il rischio di Brexit è il più imponderabile: se Londra sceglie l’addio alla Ue si apre un periodo di grande incertezza ”

André Sapir , economista del think tank Bruegel 

Questi due scenari, combinati agli altri cinque fronti aperti rappresentano una minaccia reale, ma al tempo stesso un’opportunità per costruire una nuova identità europea. Comunque vada, tuttavia, si tratterà di un processo lungo e doloroso».

L’incubo di una Grexit è stato nuovamente scongiurato lo scorso 25 maggio, quando i creditori (Ue e Fmi) dopo l’ennesima maratona notturna hanno deciso di versare ad Atene nuovi aiuti per 10,3 miliardi di euro nel quadro del terzo piano di salvataggio avviato nell’agosto 2015. La prima tranche dovrebbe essere sborsata in questi giorni, la seconda dopo l’estate. Ma come sempre i rubinetti verranno aperti solo dopo un’attenta verifica che in questo caso riguarderà l’avanzata del piano di privatizzazioni e della riforma delle pensioni. Almeno a parole Atene ha poi ottenuto, per la seconda volta in meno di cinque anni, un nuovo alleggerimento del debito, ma solo a partire dal 2018 e in presenza di condizioni significative. Insomma, la strada per portare il Paese lontano dalla crisi è ancora lunga.

A Bruxelles, però, è vietato adagiarsi sugli allori. C’è infatti un’altra data da monitorare con attenzione: il 26 giugno, quando la Spagna tornerà alle urne dopo sei mesi di paralisi politica. «Con una forte affermazione di Podemos - spiega Sapir - il Paese si aggiungerebbe a Grecia e Portogallo nel creare una sorta di fronte dei Paesi debitori che hanno sperimentato un programma di aiuti di vario tipo, opposti ai creditori più virtuosi come Germania, Olanda e Finlandia. La sfida sarà trovare un punto di equilibrio tra le due visioni». Soprattutto a partire da una governance economica complessa, che tende all’equilibrio dei conti pubblici nel medio termine e concede solo timide concessioni alla ricerca della crescita e della competitività perduta. Qualche spiraglio è arrivato con l’annuncio della revisione delle regole sull’output gap (la distanza tra il Pil reale e quello potenziale) e dai margini di flessibilità concessi a maggio all’Italia. Ma i prossimi mesi saranno decisivi per capire se è in atto un vero cambiamento di rotta.

Il periodo d’incertezza si protrarrà anche nel 2017 - che qualche commentatore ha già ribattezzato l’anno della tempesta perfetta. La Ue sarà infatti messa a dura prova dal test elettorale in Francia - con il rischio di un’avanzata del Front National - e in Germania, dove il partito euroscettico di destra Alternative für Deutschland cercherà la definitiva consacrazione.

Un laboratorio tra euroentusiasti ed euroscettici è già fin d’ora l’accordo di Schengen sulla libera circolazione dei cittadini, simbolo dell’Europa senza frontiere. I costi di un flop dell’intesa si aggirano, secondo le stime della Fondazione Bertelsman, intorno ai 1.400 miliardi per l’intera Ue nell’arco di dieci anni. Oltre all’inestimabile contraccolpo politico di un altro sogno dei padri fondatori infranto alla prova della realtà. Secondo Sapir, una delle soluzioni possibili potrebbe essere un’intesa più forte con un’unica gestione delle frontiere esterne.

L’ultima spina nel fianco è l’Unione bancaria, ancora incompleta con molti ostacoli. Dopo la vigilanza unica sotto l’egida della Bce e il meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie resta aperto il cantiere della garanzia unica sui depositi. Il nuovo schema, presentato dalla Commissione Ue a fine novembre, dovrà sostituire i sistemi in vigore nei vari Paesi per tutelare i correntisti in caso di crisi bancaria. La Germania però si oppone a un modello condiviso, perché teme la messa in comune dei rischi (e delle perdite).

La Ue è a un bivio tra la solidarietà e la difesa delle proprie prerogative nazionali. Quale via imboccherà il Vecchio continente per superare l’impasse? Il sogno dei padri fondatori si trasformerà nell’incubo di un’Europa à la carte? Sapir non è così pessimista: «Una possibile via d’uscita potrebbe essere un’Unione a due velocità: tra chi concepisce la casa comune solo come un mercato unico e chi invece sente la spinta per un’integrazione più stretta. Occorrerà una buona dose di realismo e la Ue dovrà fare un esercizio di introspezione democratica e cercare di recuperare il rapporto con i cittadini». L’unica certezza, almeno per ora, è che gli Stati Uniti d’Europa di Churchill non sono all’orizzonte.

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