Tra le malcelate preoccupazioni degli uni e la cauta speranza degli altri, l’establishment comunitario conta i giorni che lo separano dal voto referendario con il quale la Gran Bretagna deciderà se rimanere nell’Unione. Ormai mancano meno di 10 giorni, e l’esito rimane incerto. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha dato una allarmata intervista al quotidiano tedesco Bild, per avvertire che Brexit avrebbe pesanti ripercussioni sulla «civiltà occidentale».
Una uscita del Regno Unito dall’Unione «sarebbe economicamente e anche da un punto di vista geopolitico uno scacco per la Gran Bretagna», ha detto Tusk, ex primo ministro liberale polacco. «Perché sarebbe così pericoloso? (…) In quanto storico, temo che Brexit possa marcare non solo l’inizio della distruzione dell’Unione ma anche della civiltà occidentale». Un voto favorevole all’uscita del paese «rafforzerebbe» tutti i movimenti politici euroscettici e indurrebbe «i nemici esterni a stappare champagne».
«Qualsiasi famiglia sa che un divorzio è traumatico per tutti. Tutti nella Ue, ma in particolare i britannici, avrebbero da perdere in termini economici», ha aggiunto Tusk. Proprio ieri il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha incontrato qui a Bruxelles il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Secondo la portavoce dell’esecutivo comunitario Mina Andreeva, l’incontro fa parte degli scambi regolari tra i due esponenti, ma si deve immaginare che i due abbiano discusso di Brexit.
Il voto inglese sta mettendo alla prova la comunicazione dell’establishment comunitario. Deve prendere posizione, avvertendo dei rischi di un Brexit e criticando i sostenitori di una uscita del Paese dall’Unione? O è invece meglio evitare di immischiarsi nella campagna elettorale per paura di rafforzare indirettamente il campo di coloro che voteranno per Brexit? C’è di più. L’establishment è diviso: nel caso di Brexit, c’è chi vede solo nero; e chi invece spera nel medio termine in un rilancio dell’Unione.
A prendere posizione ieri è stato anche il premier olandese Mark Rutte: «La Gran Bretagna è una economia di mercato proiettata verso l’esterno, come l’Olanda. Siamo ambedue nazioni di navigatori, abituate a commerciare e a lavorare con le frontiere aperte. È importante che un paese come il Regno Unito rimanga». Rutte ha poi aggiunto: «Osserviamo molta instabilità nel mondo. Se una delle più grandi economie del mondo lasciasse l’Europa, ciò indurrebbe molti a stappare champagne. Non voglio che succeda».
Proprio la settimana scorsa, l’Ufficio di analisi delle politiche economiche (noto con l’acronimo CPB), un ente pubblico olandese, ha sostenuto che l’Olanda sarebbe uno dei Paesi che più soffrirebbero del Brexit, con una riduzione del prodotto interno lordo dell’1,2% da qui al 2030, per via di un calo degli scambi commerciali. L’Aja non è solo tradizionalmente alleata di Londra. Deve anche fare i conti con la bocciatura da parte degli elettori olandesi di un accordo di associazione con l’Ucraina.
Il risultato del voto referendario non è vincolante per il governo olandese, ma quest’ultimo deve ancora decidere come reagire al referendum (si veda Il Sole 24 ore dell’8 aprile scorso). Non per altro, ieri all’Aja incontrando un gruppo di parlamentari europei, lo stesso Rutte ha criticato l’istituto del voto referendario: «Sono totalmente contrario ai referendum – ha detto –. E sono totalmente, totalmente, totalmente contrario ai referendum sugli accordi multilaterali».
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