Sull’eventuale voto favorevole all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea un fatto è certo: il 24 giugno, il giorno successivo la fatidica data del referendum, non succederà nulla. La Gran Bretagna, infatti, ha due anni di tempo per rinegoziare con i partner europei gli accordi bilaterali prima di uscire definitivamente. Tutti tranquilli dunque? Non proprio perché per la City se l’ipotesi si verificherà, sarà comunque una rivoluzione, lenta ma destinata ad incidere pesantemente. In questi giorni la piazza londinese è in subbuglio: studi legali, banche internazionali, società finanziarie stanno cominciando a valutare seriamente le conseguenze della Gran Bretagna fuori dall’Unione Europea.
Uno scenario preciso al momento non esiste a cominciare dalla giurisdizione che dovrà essere fatta valere nei contratti sottostanti migliaia di prodotti finanziari in circolazione: varrà ancora la English Law, quella che attualmente sovrintende i prospetti delle obbligazioni scambiate sull’Euromercato? Una incertezza che sta già avendo un impatto sul mercato dove l’attività è quasi congelata in attesa del risultato del referendum.
Se tutti sono d’accordo sul fatto che per i contratti finora stipulati non cambierà nulla, i pareri divergono sugli scenari della fase di transizione. Secondo gli studi legali, l’eventuale voto favorevole alla Brexit non dovrebbe cambiare nulla ai contratti in corso e governati dalla legge inglese ed è improbabile che «la documentazione tipica di un vigente Eurobond contenga previsioni capaci di far scattare un evento di inadempimento (default) o che portino quale conseguenza il rimborso anticipato del prestito», commenta Cristiano Tommasi, partner della law firm Allen & Overy. Meno certo, invece, lo scenario prospettato dall’Icma (International capital market association) che associa più di 500 operatori internazionali del capital market. In un documento pubblicato di recente, l’associazione scrive che in caso di Brexit «non è certo se l’attuale English law potrà continuare ad essere utilizzata nella contrattualistica finanziaria e in particolare tra Uk e il resto dell’Europa». Di fronte a questa incertezza, alcuni emittenti inglesi hanno inserito nei prospetti delle ultime emissioni tra i fattori di rischio anche l’ipotesi Brexit.
Il segmento del fixed income tra i più rilevanti in Europa e molto profittevole per le banche rischia in futuro di frammentarsi tra la piazza londinese e il resto del Continente dominato da Dublino e dalla Borsa del Lussemburgo, proprio in un momento in cui in Europa si sta studiando la Capital Market Union per integrare ancora di più i mercati. L’eventuale Brexit presenta un rischio in più per gli operatori inglesi che potrebbero vedersi archiviare il single passport europeo valido per i prodotti finanziari distribuiti sul territorio dell’Unione - ad esempio le obbligazioni vendute al retail - ottenendo il via libera da una unica autorità di mercato competente. In caso di Brexit la Ue sarà tenuta a non riconoscere i prodotti collocati da operatori anglosassoni, venendo meno la direttiva transparency, la market abuse e la Mifid. Per alcuni sostenitori della Brexit, la finanza non potrà che trarne vantaggio liberata dai lacciuoli regolamentari in cui la costringe la Ue, tuttavia senza un eventuale accordo con il Vecchio Continente la piazza finanziaria più famosa del mondo rischia di essere messa in seria difficoltà.
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