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Juncker: chi è fuori sta fuori

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Juncker: chi è fuori sta fuori

Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione  Europea  (Afp)
Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea (Afp)

Tra speranze e angosce, l’establishment comunitario si sta preparando al voto referendario di oggi in Gran Bretagna sul futuro del paese nell’Unione, o meglio ai risultati attesi per domani mattina. I ministri degli Esteri dei sei paesi fondatori hanno deciso di riunirsi sabato per la terza volta in pochi mesi in modo da discutere il risultato elettorale. C’è chi spera che dal vertice possa scaturire un nuovo slancio politico verso l’integrazione europea, ma le premesse sono fragili.

Nonostante il ritorno in auge del Remain nei sondaggi, qui a Bruxelles prevale la cautela. «I politici e gli elettori britannici devono sapere che non ci sarà alcun tipo di nuovo negoziato», ha avvertito in una conferenza stampa il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Riferendosi all’accordo ottenuto in febbraio con Londra, e oggetto nei fatti del referendum, ha aggiunto: il premier David Cameron «ha avuto il massimo che poteva ricevere e noi abbiamo dato il massimo che potevamo dare».

Nei fatti, lo sguardo corre a domani. Il programma prevede una riunione in mattinata dei presidenti delle maggiori istituzioni comunitarie: Juncker, per la Commissione; Donald Tusk per il Consiglio europeo; Martin Schulz per il Parlamento europeo; e Mark Rutte, primo ministro dell’Olanda che in questo semestre presiede l’Unione. I diplomatici sono al lavoro per preparare un comunicato congiunto. Quale sia il risultato, la dichiarazione vorrà rassicurare sull’unità dell’Unione.

Qui a Bruxelles c’è il desiderio di dare una risposta unica, o meglio concordata. Nessuno si fa illusioni sul fatto che tutti i governi nazionali si esprimeranno. «Vogliamo almeno evitare la cacofonia nella sostanza», spiega un esponente comunitario. Tusk sta trascorrendo queste ore al telefono con i 28 capi di stato e di governo per affinare la comunicazione in vista di venerdì. «Il primo a parlare sarà comunque il premier britannico David Cameron», aggiunge l’esponente comunitario.

Per ora, la Commissione ha previsto una riunione del collegio lunedì, a ridosso del vertice europeo del 28-29 giugno. Durante un punto-stampa quotidiano, il portavoce dell’esecutivo comunitario, Margaritis Schinas, ha spiegato che il programma potrebbe cambiare in caso di vittoria del Leave. Ieri intanto i commissari hanno avuto una discussione «molto interessante e utile» sulla situazione politica nell’Unione e nei Ventotto. Oltre al voto inglese, si vota anche in Spagna domenica.

Nel caso di vittoria del Leave, l’iniziativa passa al governo inglese che dovrà annunciare ufficialmente la volontà di lasciare l’Unione. In caso contrario, ossia di vittoria del Remain, la palla è nel campo della Commissione che dovrà presentare emendamenti legislativi per adottare l’accordo raggiunto in febbraio tra i Ventotto, che prevede limiti alla libera circolazione degli europei nel Regno Unito e modifiche alle norme sugli aiuti previdenziali ai figli (si veda Il Sole 24 Ore di domenica) e in generale la possibilità per Londra di chiamarsi fuori da eventuali progetti di ulteriore integrazione.

I ministri degli Esteri dei sei paesi fondatori – Germania, Francia, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo – hanno deciso di incontrarsi sabato a Berlino. Che possa essere l’occasione per una grande dichiarazione politica con la quale, indipendentemente dai risultati del voto inglese, rassicurare i mercati finanziari e rilanciare l’integrazione europea intorno al nucleo storico? Le ultime riunioni, di febbraio e di maggio, non hanno avuto risultati eclatanti, anche se negli ultimi mesi la formula degli incontri a sei è stata “rispolverata”.

Due elementi spingono alla cautela. Il primo è legato alle differenze tra i paesi, tutti con gli occhi rivolti alla loro pubblica opinione e preoccupati dal rafforzare in qualche modo i partiti euroscettici con iniziative ambiziosamente europeiste.

Il secondo motivo è che qui a Bruxelles prevale l’idea che la risposta al referendum inglese, quale sia il risultato, debba essere una risposta a 27 o a 28: «Una risposta più spezzettata – si afferma nell’entourage di Tusk – contribuirebbe ai nostri occhi a dividere l’Unione».

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