
Abbiamo perso l’occasione storica offerta «dal decennio d’oro dell’integrazione europea dopo la caduta del Muro di Berlino». Si è imboccata, «e non per colpa degli inglesi», la strada del «coordinamento intergovernativo delle politiche nazionali», e dal 1992 fino alla Convenzione di fatto abbiamo perso un decennio senza adottare alcuno strumento «per fronteggiare eventuali problemi di stabilità dell’euro». E ora? «In fondo tutto quel che sta avvenendo in Europa è la conseguenza del fallimento delle élite».
«Inevitabile, se le élite che governano non sono in grado di dare risposte a quel che si muove nell’elettorato. Non siamo in grado di accogliere i migranti? C’è lo spazio. Se il fenomeno fosse stato affrontato con governo unico dell’immigrazione, si sarebbero evitate le reazioni cui stiamo assistendo». E allora ecco una strada possibile da tracciare: un’avanguardia di paesi, «Germania, Francia, Italia e sarebbe auspicabile anche la Spagna» che si mette alla testa di un ampio percorso di ricostruzione politica dell’Europa. Passi in avanti immediati e concreti, che mostrino ai cittadini europei una cosa semplice: «Con la maggiore integrazione si sta meglio, il futuro è meno incerto, e i processi complessi con cui occorre fare i conti si possono governare insieme».
Giuliano Amato, attuale giudice della Corte Costituzionale, ex presidente del Consiglio e più volte ministro, interviene alla cerimonia conclusiva del 2° Master di Management politico organizzato dalla Business School del Sole 24 Ore e dalla School of Government della Luiss, e sollecitato dalle domande di Sergio Fabbrini traccia un affresco a tutto campo delle sfide che attendono l’Europa, ora che la Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’Unione. Lo fa non prima di aver rievocato la figura di Fabrizio Forquet, il vice direttore del Sole 24 Ore scomparso lo scorso 2 aprile. «Fabrizio ci ha insegnato a non seguire l’emozione che a tratti pare vincente nell’interpretare i fatti, ma a ricercare le ragioni di quel che accade». Amato la conosce bene, l’Europa. Da vice presidente della Convenzione europea, ha partecipato in prima persona nel 2002 alle faticose fasi di elaborazione della bozza di Costituzione europea. E proprio dagli anni Novanta prende le mosse la sua ricostruzione: «Non si è capito che portando altri quindici paesi in un’area in cui il meccanismo decisionale si basava su una forte componente intergovernativa si rischiava di non farcela. Già perché ogni volta che si prende una decisione, poi di fatto la si consegna a 28 apparati pubblici». Quanto al percorso di integrazione economica e finanziaria, il problema è che «se appare chiaro e definito il meccanismo decisionale attribuito alla politica monetaria, con il sistema delle banche centrali che concorre alle scelte poi assunte dal board della Bce, sul versante della politica economica e fiscale non si sono fatti passi in avanti». Si arriva al percorso costituente, e Amato ammette senza mezzi termini che su questo punto «la Convenzione fu impotente. Ci eravamo organizzati in gruppi di lavoro. Pensate che inizialmente la commissione che doveva affrontare le tematiche economiche e sociali non era stata nemmeno costituita. Poi la costituimmo, e ricordo anche che nel bel mezzo dei lavori arrivò una telefonata del cancelliere Gerhard Schröder: “Guardate che non io, ma i miei Länder non accetteranno mai interferenze in queste materie”». E ora? Siamo lì. La «crisi dell’eurozona, l’immigrazione e l’emergenza della sicurezza mostrano l’assoluta necessità di un governo europeo».
Torniamo agli anni Settanta. La Gran Bretagna «non ci pensava proprio ad andarsene. Casomai chiedeva di salvaguardare la sua specificità». Si arriva al Trattato di Nizza e i laburisti di Tony Blair ribadiscono: «A proteggere i diritti sociali dei lavoratori inglesi ci pensiamo noi». Ma il vero “presagio”, il punto di discrimine di quel che sarebbe avvenuto dopo, fino alla Brexit, è Schengen. «Gli inglesi vogliono continuare ad avere la sicurezza del controllo di chi entra nel loro paese. Non sono certo razzisti, ma in fondo non distinguono tra comunitari ed extracomunitari. Ci sono abituati con il Commonwealth». Il ragionamento torna su quel che continua a mancare: manca proprio questo governo politico dei fenomeni. Qualche esempio? «Vi pare possibile che il governo francese, con il suo Jobs act più che ragionevole, non abbia un Partito socialista in grado di seminare prima di raccogliere? Qui c’è un problema fortissimo di sconnessione. Non sono tra quelli che pensano all’era dei partiti di qualche decennio fa come all’età dell’oro. Ma quei partiti avevano i terminali diffusi nel territorio».
Nel referendum del 1975, l’allora primo ministro Harold Wilson «non si spese più di tanto. Eppure quel referendum passò. Allora l’economia inglese era nei guai, un tasso di crescita in decelerazione. Entrare nel mercato comune era un’opportunità. Oggi non è più così. Ha prevalso il nightmare, l’incubo dell'immigrazione. Nessuno se l’è sentita di dire che l’Europa è più attraente, più appealing, mentre negli anni Settanta lo era». Effetto contagio? Possibile ma non certo. «Il vero problema è che per essere più appealing l’Europa deve avere più strumenti di governo. Se invece i governanti europei restano paralizzati dove sono, il risultato è la progressiva perdita della maggioranza da parte dei partiti che tuttora rappresentano l’unità dell’Europa. L’Austria si è fermata a un passo. Cosa accadrà oggi in Spagna?». E allora professor Amato, chi può rilanciare l’Europa? «Non certo i mercati. Lo può fare solo la politica, quella che finora è mancata».
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