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Ma gli inglesi fanno sul serio?

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L'Analisi|lo scenario

Ma gli inglesi fanno sul serio?

E se tra sei mesi si scoprisse che la grande paura di Brexit finirà in niente dopo aver regalato domenica all'Europa un beneficio collaterale non trascurabile come il recupero alla stabilità politica della Spagna di Mariano Rajoy?

Nel pieno della tempesta finanziaria, che continua a investire sterlina, Borse e banche, di una bufera politica che strapazza i vertici di conservatori e laburisti dopo lo stentoreo no all’Ue pronunciato dal referendum, più che un dubbio spericolato l’interrogativo può suonare senza senso. E forse lo è. Però non tanto quanto potrebbe sembrare.

Oggi si apre a Bruxelles un vertice europeo difficile: una finestra aperta sul buio dell’Europa ancora sotto shock, alla disperata ricerca della riconciliazione con i propri cittadini. Senza, ogni progetto di rilancio sarà impossibile. Come ha implicitamente confermato ieri a Berlino il pre-vertice tra Germania, Francia e Italia. In attesa delle mosse di Londra.

Soltanto il recupero del consenso popolare, l’adozione di politiche in grado di calmare ansie, incertezze e frustrazioni europee e non, potrà infatti fermare le troppe altre Brexit sottotraccia: Francia, Olanda e Finlandia le hanno già ufficializzate con la voce dei rispettivi partiti euroscettici. L’estrema destra in Austria annuncia un referendum sull’Europa, se si rafforzasse l’attuale soglia di integrazione.

In questo scenario di precarietà generale, che alla lunga potrebbe rivelarsi ancora più insidioso della secessione britannica, la Spagna lancia il primo convincente segnale in controtendenza: Podemos, partito anti-rigore e anti-establishment, sicuro di arrivare primo alle elezioni di domenica, ha invece perso un milione di voti in 6 mesi, mentre i popolari del premier Mariano Rajoy, certi di perdere, hanno allargato la maggioranza. Non abbastanza però per governare da soli. A rischio dunque di nuovi mesi di incertezza sul nuovo Governo. A meno che i socialisti non si risolvano a fare la grande coalizione.

Messi di fronte alla prova tangibile dello sconquasso che accompagna la decisione di rompere la rete delle profonde interdipendenze tessute in decenni di partnership europea, gli spagnoli hanno fatto un passo indietro scegliendo il certo invece dell’incerto. In questo senso, di sicuro non volutamente, Brexit ha dato una mano all’Europa. E forse potrebbe continuare a farlo anche in futuro, accelerandone il ricompattamento interno. O, meglio ancora, attraverso una clamorosa auto-abiura. Nei fatti.

Gli spagnoli l’hanno evitata in extremis: gli inglesi invece si stanno leccando le ferite provocate dall’insurrezione, e forse non le hanno ancora individuate tutte. Per ora sterlina ai minimi, Borse in discesa, City in ambasce, fuga delle banche, investimenti bloccati, quelli industriali, Toyota e Honda per fare nomi, tentati da piazze alternative, recessione “dolce” in vista. Niente di mortale, forse guai passeggeri ma di sicuro per ora pesanti e molto sgradevoli.

Volenti o nolenti il futuro è diventato più aleatorio, i vantaggi di Brexit sono poco chiari. Di certo chi ha voluto la secessione, per rimpatriare la sovranità ceduta a Bruxelles, ora scopre che invece la perderà tutta in Europa sulle decisioni che faranno il mercato unico, che dunque dovrà subire quelle degli altri se vorrà continuare a restarci. Non è gratificante. Come non lo è la perdita secca del passaporto europeo, la possibilità di operare da Londra in tutta la Ue con la sola licenza britannica.

Di più. Il Regno potrebbe a sua volta perdere pezzi, ridursi a piccola Inghilterra, tra la Scozia, che minaccia l’indipendenza pur di non lasciare l’Europa, e l’Ulster attirato dalle sirene irlandesi. L’involuzione, che investe la Gran Bretagna come l’Unione, non piace agli Stati Uniti che, per bocca del segretario di Stato ieri a Bruxelles, invitano entrambi «a non perdere la testa, a non cercare vendette ma negoziati responsabili». Né piace alla Cina, il cui presidente auspica «unità e stabilità europea, stabilità e prosperità britannica».

In Europa non sarebbe la prima volta che i no referendari diventano sì dopo negoziati intra-Ue, concessioni varie o manipolazioni semantiche. È successo con la Danimarca nel ’92 dopo il no al Trattato di Maastricht. Con l’Irlanda nel 2001 e 2008. Con Francia e Olanda dopo il no alla Costituzione Ue.

Gli interessi in gioco da entrambe le parti sono enormi. Tutti hanno molto da perdere dal divorzio. Per questo David Cameron scarica sul successore la fatidica decisione di notificare Brexit invocando l’art.50 per far scattare le trattative di separazione. Per questo Angela Merkel professa estrema cautela. Forse spera nel congelamento dell’art. 50, grazie anche a oltre 3 milioni di firme raccolte per Remain e nuovo referendum. Spera in nuove elezioni in autunno che magari ribaltino con un nuovo voto la scelta di Brexit.

L’incertezza attuale non giova a nessuno ma la posta in gioco per l’Europa, il mondo e la Gran Bretagna è talmente alta che val bene una pausa di riflessione generale dopo il tempo delle passioni, dei soprassalti inconsulti di sovrana insostenibilità.

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