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L’attualità della lezione americana sull’intervento diretto…

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L’attualità della lezione americana sull’intervento diretto dello Stato

Winston Churchill amava ripetere che si poteva contare sul fatto che gli americani facessero sempre la cosa giusta, dopo aver esaurito tutte le alternative possibili. Per il governo italiano si tratta di una speranza, più che di una certezza. L’unica certezza è che tutte le alternative per salvare il sistema bancario italiano sono state già esplorate senza successo. E che il tempo stringe. L’incertezza sul reale valore dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche sta producendo una crisi generalizzata di fiducia nel sistema bancario, che potrebbe avere effetti devastanti. Per evitarla rimane solo un intervento diretto dello stato nel capitale delle banche. Non è una raccomandazione che ripeto a cuor leggero, ma a mali estremi, estremi rimedi. E certo i mali oggi sono estremi.

Il motivo per cui sono arrivato già da tempo a questa raccomandazione è l’esperienza diretta che ho avuto della crisi americana del 2007-2008. Anche in quel caso, si cercò prima di creare un fondo per acquistare i mutui tossici (la versione americana dei nostri crediti deteriorati), poi di farli comprare allo stato, alla fine si capì che l’unica soluzione era immettere capitale pubblico nel sistema bancario.

Questa soluzione ha numerosi vantaggi. Primo, si fa molta più strada con gli stessi soldi. Grazie all’elevata leva finanziaria delle banche gli stessi fondi investiti in azioni possono indirettamente comprare quasi 20 volte l’ammontare di crediti deteriorati. Secondo, è molto più rapida. Se lo stato non vuole strapagare per i crediti deteriorati e rimetterci molti soldi, deve organizzarne in modo molto serio l’acquisto. Non esiste il tempo per farlo. Terzo, permette maggiori meccanismi di protezione dei contribuenti. Il contribuente americano ha finito per guadagnarci dall’intervento dello stato nelle banche avvenuto nel 2008.

In un mondo ideale questo intervento dovrebbe essere effettuato dal Tesoro italiano. Siccome non viviamo in un mondo ideale e le regole europee ci proibiscono un tale intervento prima di aver effettuato un bail-in pari all’8% dell’attivo bancario, l’unica soluzione possibile è fare questo intervento tramite la Cassa depositi e prestiti (Cdp), che è fuori dal perimetro dello Stato. Nel colmo della crisi del 2008 ad investire non ci fu solo il Tesoro americano, ma anche Warren Buffet, che guadagnò profumatamente. Se l’intervento avviene a condizioni di mercato non solo l’Italia si mette al riparo da critiche dell’Europa, ma protegge anche i suoi contribuenti.

Per funzionare, questo intervento deve essere rapido e deve essere decisivo. Per essere rapido deve essere basato su regole semplici e facilmente verificabili. Al contempo deve proteggere i soldi dei contribuenti, senza violare i diritti degli attuali azionisti. Raggiungere tutti questi obiettivi contemporaneamente è difficile ma non impossibile, facendo tesoro dell’esperienza americana.

Innanzitutto, capiamo l’entità del problema. Ci sono circa 200 miliardi di crediti deteriorati. In media questi crediti sono valutati al 40%, ma il mercato ritiene che valgano solo il 20%. Quindi un’iniezione di capitale pari a 40 miliardi è in grado di assorbire le perdite anche nell’ipotesi peggiore e quindi tranquillizzare i depositanti e gli obbligazionisti.

La Cdp dovrebbe quindi impegnarsi ad investire in ogni banca una cifra pari al 20% dei crediti in sofferenza. Il segreto è immettere capitale sotto forma di azioni “preferred” convertibili in azioni ordinarie. Il vantaggio delle preferred americane, rispetto alle nostre privilegiate, è che sono redimibili da parte della società emittente ad un valore predeterminato. Se la banca è sana, può facilmente nei mesi successivi emettere azioni ordinarie sul mercato e riacquistare le preferred emesse, tutelando il valore degli azionisti esistenti. Se invece la banca non è solida, questo capitale servirà di garanzia.

Le preferred sono subordinate a tutti i titoli di debito (compresi i bond subordinati), ma hanno priorità rispetto al capitale azionario esistente. Quindi i contribuenti non vanno a proteggere gli azionisti, ma solo i depositanti e gli obbligazionisti. Se le perdite sono elevate, gli azionisti esistenti sono spazzati via e le preferred diventano azioni ordinarie.

Per evitare che i banchieri se ne approfittassero, le preferred americane avevano tre clausole importanti. Primo, proibivano il pagamento di qualsiasi dividendo alle ordinarie fino a quando le preferred non erano state riacquistate. Secondo, ponevano dei limiti molto rigidi (e molto bassi) ai compensi del management. Terzo, contenevano un warrant (ovvero il diritto a comprare ulteriori azioni ad un prezzo prestabilito al di sopra dell’attuale prezzo di mercato). Questo garantiva al contribuente parte del beneficio dell’operazione in caso di successo. Dovremmo anche noi seguire quest’esempio.

Nel caso americano le preferred erano prive dei diritti di voto fino a quando non erano convertite, perché si temeva un’eccessiva ingerenza dello stato nell’allocazione del credito. Ovviamente questo problema esiste anche in Italia, ma – data la qualità inferiore della corporate governance italiana – esiste anche il rischio che il management approfitti dei soldi dei contribuenti. Per questo penso sia un buon compromesso assegnare alle preferred il diritto di nominare l’intero collegio sindacale e il presidente del consiglio di amministrazione, lasciando agli attuali azionisti il diritto di gestire la società, almeno fino a quando le preferred non sono convertite.

Ovviamente esiste anche un problema politico. Negli Stati Uniti l’intervento statale ha prodotto come reazione il Tea Party e – in qualche modo – ha creato il consenso per un personaggio come Donald Trump. Come evitare che questo succeda in Italia?

Da un lato bisogna spiegare quale è oggi l’alternativa: il caso Etruria moltiplicato per 100. L’intervento statale non è quindi per salvare i banchieri, ma per salvare i depositanti e tutti coloro ai quali sono stati rifilati i bond bancari “sicuri”. Dall’altro bisogna fugare anche il minimo dubbio che questa manovra sia fatta per salvare i soliti noti. Per questo contestualmente all’investimento deve essere varata una commissione d’inchiesta, composta non da parlamentari, ma da esperti indipendenti. Questi dovranno accertare le possibili responsabilità di persone e istituzioni e riportare in modo pubblico al Parlamento nel giro di 9 mesi.

In questo difficile momento il governo non deve avere paura di agire: l’inazione sarebbe una colpa ben maggiore. Non deve neppure temere che i cittadini non capiscano. Se opportunamente informati, sono più che capaci di capire e oggi più che mai meritano rispetto e fiducia. L’importante è non mentire loro dicendo che è tutta colpa del Regno Unito. La Brexit è stata sola la famigerata scintilla, tutto il resto è di produzione nazionale.

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