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Dio salvi le leader del Regno Unito? Le tre donne che emergono da Brexit

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dopo il referendum

Dio salvi le leader del Regno Unito? Le tre donne che emergono da Brexit

Gli uomini sulla scena sono scioccati e confusi, non ricordano la parte, non sanno più le battute; le donne ogni giorno che passa prendono uno spicchio in più di palcoscenico. Accade nel dramma in più atti “Westminster dopo Brexit”, e no, non è la commedia di Aristofane in cui un manipolo di travestite s’impossessa del parlamento ad Atene. Senza bisogno di alcun raggiro, i leader politici a Londra sembrano pugili suonati, e un gruppetto di colleghe emerge dal caos di questi giorni con buona pace dello stracitato Churchill che non avrebbe voluto conceder loro neanche il diritto di voto.

Cameron, Corbyn, ma anche Johnson e lo stesso vincitore Farage appaiono come imbambolati. Ciascuno nella sua parte sta dimostrando di non avere la benché minima idea di cosa fare. Sembra che nessuno avesse pensato a un piano B in caso di uscita dall'Ue, e si vede. Cameron si è dimesso ma deve gestire la transizione fino al 9 settembre e nel suo ultimo vertice a Bruxelles accusa la Ue di non aver saputo gestire i flussi migratori, come un marito rancoroso che non vuole ammettere le sue colpe in un matrimonio fallito.

L’ex sindaco di Londra Boris Johnson, il leader conservatore proLeave che dovrebbe esultare, sembra ancora più in difficoltà: fischiato dai manifestanti sotto casa, in imbarazzo sulle future strategie economiche da adottare, inviso a molti del suo partito. Jonhson che voleva prendere il posto di Cameron ora è vittima dell’AAB (All but Boris), tutti tranne Boris, motto d’ordine dei conservatori che non vogliono il biondo e pittoresco ex giornalista come successore di Cameron. E dunque ecco la prima donna.

L’alternativa a Johnson è la sempre più forte Theresa May, 59enne con un passato alla Bank of England, per sei anni ministro dell’Interno del governo Cameron, dura su sicurezza e immigrazione, euroscettica quanto basta, schierata col Remain ma sempre defilata, già qualcuno l’ha definita l’Angela Merkel britannica. Adesso è lei la candidata preferita dai conservatori, secondo un sondaggio di YouGov per il Times: la vorrebbe il 31% dell'elettorato Tory contro il 24% che tifa Boris il quale però ad aprile era in testa col 36 per cento. Un’altra indagine fra 1.300 membri del partito conservatore dà la signora May al 29% e Johnson al 28. Come sembra sempre meno scontato che Boris si prenderà il partito, così appare vincente la strategia, che è anche un’indole, di May: sta ferma, parla poco, è sobria e misurata, probabilmente avrà anche l’appoggio degli uomini di Cameron che ufficialmente rimarrà neutrale.

Banchi dell’opposizione, stessa scena (alla Camera dei Comuni i posti sono meno dei parlamentari, chi arriva tardi resta in piedi). Le cose più gentili che si scrivono di lui in queste ore sono «anatra zoppa» e «dead man walking» (in coppia con Cameron, s’intende). Il leader dei laburisti Jeremy Corbyn è stato sfiduciato dall’80% dei deputati del Labour, è accusato di aver fatto una tiepida campagna per il Remain, tutti i leader del suo partito gli stanno chiedendo di dimettersi, da Gordon Brown ad Ed Miliband, ma lui non cede.

La sua più probabile avversaria si chiama Angela Eagle, 55 anni, è una dei ministri del governo ombra del Labour che si è dimessa dopo il voto su Brexit, è indicata come la favorita a contendere la leadership a Corbyn ma lei per ora non commenta. È una politica d’esperienza, alla Camera dei Comuni dal 1992, è stata ministro del Tesoro del governo Brown, prima ha lavorato sia per la Confindustria britannica (CBI) sia per un sindacato di lavoratori della sanità. Da piccola è stata una scacchista di livello internazionale, se vincesse la sfida per la leadership sarebbe il primo politico gay a capo di un grande partito britannico.

Una partita parallela giocano la nazionalista che guida la Scozia e il politico populista che canta vittoria per Brexit. Ventiquattro ore dopo il voto, il leader dell’Ukip Nigel Farage ha dovuto smentire che i 350 milioni di sterline diretti all’Ue sarebbero andati alla sanità inglese; e all’europarlamento ieri il campione degli eurofobi è superato in gigionismo dal presidente della Commissione Juncker.

Contemporaneamente la premier scozzese Nicola Sturgeon, 45 anni,già definita lady di ferro, inizia la sua guerra di posizione di ottimo successo mediatico: minaccia un altro referendum per l’indipendenza della Scozia terra del Remain, scalda gli animi degli scissionisti, vola a Bruxelles a stringere la mano al presidente dell’europarlamento Schultz e incassa da Juncker: «La Scozia si è guadagnata il diritto di essere ascoltata da Bruxelles, la ascolterò attentamente ma non ho intenzione di interferire negli affari britannici né Donald (Tusk, presidente del consiglio europeo) lo farà».

Nella battaglia di lacrime dei giovani che manifestano a Londra per l’Ue e del sangue di Jo Cox, la giovane deputata laburista uccisa da uno psicolabile con simpatie razziste e di estrema destra a pochi giorni dal voto, potrebbe intervenire un’altra donna da mesi silenziosa. Sinora è trapelato solo che a chiunque andasse a Buckingham Palace, la regina chiedesse tre buone ragioni per restare in Europa, nei prossimi mesi potrebbe avere chiare le risposte.





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