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Lo spirito di emulazione per «diventare» Londra

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l’analisi

Lo spirito di emulazione per «diventare» Londra

Diventare Londra, la parola d’ordine del dopo Brexit si trasmette da capitale a capitale e un fremito di emulazione corre fino a Varsavia con tappe privilegiate ad Amsterdam e Dublino, compresa la sosta a Milano. È nella lista, e forse nemmeno in fondo alla lista, che passa per la testa di quei capitani d’industria e banchieri impegnati a ragionare sul destino dei loro business nell'ipotesi di una Gran Bretagna tagliata completamente fuori dal mercato interno.Punto di partenza di ogni considerazione è, infatti, questo: esclusione totale dal single market, nessun modello norvegese o svizzero, per intenderci. Se sarà così – scenario possibile, non ancora probabile – da Londra potrebbe essere davvero fuga. Scatterà l’emulazione, nella consapevolezza che, sul continente, non c’è, oggi, metropoli capace di replicare l'offerta di Londra.

Nessuna fra le aspiranti reginette ha, infatti, il mix di ingredienti necessario. Per diventare London bisogna poter declinare: stabilità politica garantita da un sistema elettorale maggioritario secco che non fa prigionieri; attenzione e affidabilità dell'amministrazione pubblica centrale e locale; infrastrutture a cominciare dai trasporti e dagli aeroporti di primissimo livello; normativa sul lavoro ultra-flessibile essenziale nell'industria dei servizi finanziari; debole conflittualità sindacale; massa critica di 8-10 milioni di abitanti; università capaci di attrarre giovani destinati a creare una riserva infinita di professionisti specializzati, britannici e molto più spesso non britannici. Il tutto impacchettato nella ricchezza suprema di questo Paese: la lingua.

I pretendenti al trono europeo di Londra hanno pezzi di questo straordinario patchwork che il harakiri nazionale messo in scena con Brexit rischia di distruggere, nessuno, però, può mettere sul tavolo la totalità dell'offerta. Ancor di più se si aggiunge il nastro che tutto stringe, ovvero la fiscalità: corporate tax in caduta libera al di sotto della soglia del 20%, tassazione storicamente leggera per attrarre banchieri e manager da ogni parte del mondo. Oggi non è più leggera come un tempo, si obietterà, ma quell'iniziale sforbiciata alle imposte con artifici vari fu un elemento importante per rendere attraente la City, e con la City tutto il Paese, sia per i portafogli corporate sia per quelli personali.

Proprio la fiscalità promette di essere la Grande Bertha che la Gran Bretagna dei Tory dispiegherà sulle scogliere di Dover per difendere sé stessa. Se sarà escluso dal mercato interno, il Regno Unito, potrebbe lanciarsi – ammesso e non affatto concesso che la finanza pubblica lo permetta - in un dumping fiscale ancor più evidente di quello messo in scena in questi anni da tax heaven. «Ci convocheranno tutti – ci ha detto un banchiere – e ci diranno di non andarcene, mettendo sul piatto agevolazioni tali da annichilire i danni di Brexit. La City non si svuoterà e per le imprese manifatturiere spunteranno aree a tassazione zero nel sud del Paese, davanti alla Francia».

Le imposte, si sa, non bastano per orientare le scelte delle imprese, ma in un contesto come quello britannico dinnanzi alla frattura con Bruxelles, possono diventare un'arma importante. Lo scontro fra Gran Bretagna e Unione europea nel dopo Brexit si giocherà soprattutto su quel fronte. Chi aspira a diventare Londra è meglio che si adegui.

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