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Brexit, un errore che si può riparare

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Il futuro dell'Unione

Brexit, un errore che si può riparare

Il referendum britannico del 23/06 su leave o remain è uno dei più grandi errori della storia europea e le motivazioni appaiono inequivocabili ed evidenti.

La Gran Bretagna, quinta economia mondiale, è sotto il profilo storico, geografico, economico, culturale, militare e politico uno dei Paesi più importanti d’Europa e anche se ha mostrato sempre una tendenza a rimarcare le proprie peculiarità e i propri caratteri distintivi, non può essere un corpo estraneo
alla sua costruzione come entità superiore a un semplice continente geografico,
senza minarne fortemente la sua credibilità.

La rottura dell’accordo sulla Ue di cui faceva parte da oltre 40 anni rappresenta quindi in termini di magnitudo dell’evento un fatto che esce dalle scale di misurazione normale degli shock avversi perché costituisce una scelta antistorica e anzitempo di altissima potenza regressiva che
va molto oltre le valutazioni sugli impatti commerciali, valutari e macroeconomici complessivi.

In un contesto globale in cui il progresso civile ed economico delle popolazioni mondiali, la loro forza e la loro ricchezza dipendono sempre più dal tasso di apertura dei confini tra i popoli e dalla tendenza a superare i particolarismi per abbassare il livello di belligeranza che ha connotato per millenni la storia del mondo e quella dell’Europa in particolare, andare nella direzione opposta a quella seguita dall’orologio della storia della modernità, della ricchezza diffusa e della pace come condizione di normalità consolidata, giustificandola con motivazioni quasi sempre futili - quali l’eccesso di burocrazia che proviene dalle istituzioni europee; l’eccessiva invadenza su temi commerciali e convenzionali che affievolirebbero la sovranità degli stati; l’incapacità di gestire efficacemente temi complessi come l’immigrazione di massa - equivale a decidere di fronte alle criticità del percorso che è più conveniente interrompere il cammino comune verso il progresso e la prosperità voltando le spalle per ritornare verso ciò che ha prodotto il muro di Berlino.

Non c’era un modo più saggio e intelligente di affrontare l’insofferenza (comprensibile) verso la miopia delle istituzioni europee, chiaramente esitanti e incapaci di affrontare con alta visione strategica la fase congiunturale degli ultimi sette anni, immigrazione compresa?

Anziché fare un referendum sul Leave o Remain, se proprio non si poteva evitare, non si poteva proporne uno in modo meno drastico ( e quindi più intelligente) quale: è opportuno rifondare su nuove basi l’Unione Europea per adattarla al nuovo scenario, Si o No?

Un referendum che
sarebbe stravinto in tutte le nazioni europee e che non avrebbe potuto essere
privo di grandi e positive conseguenze politiche.

Tuttavia ora la frittata è fatta e bisogna capire e decidere come affrontarla senza cadere nei banali semplicismi di chi dice: “out is out”! Un modo sciocco di constatare arrendevolmente che il danno è ormai compiuto e non si può che prenderne atto presentando subito il conto a chi ha osato sfidare le istituzioni europee.

Ma è proprio questo il punto, di quale danno stiamo parlando? Quello indicato dai tecnici che individuano nella svalutazione della sterlina, nel ridimensionamento dell’industria finanziaria londinese, nella minore attrazione di investimenti, nella crescita sostenuta dall’inflazione, nel distacco di Irlanda del Nord e Scozia, nella crescita della disoccupazione e del potere d’acquisto delle classi meno abbienti, nel crollo del prezzo delle case, nel declassamento del debito inglese e nella sua inevitabile maggiore difficoltà di gestire il bilancio, con inevitabili ricadute incisive sulla crescita e sulle prospettive di benessere di tutta l’Europa? Oppure c’è un danno, intangibile per i modelli econometrici, più elevato?

Il danno che conseguirà purtroppo è ancora maggiore perché l’alto livello di incertezza sul futuro si radicherà stabilmente e la semplice possibilità che in Europa altri paesi prendano il treno del ritorno al passato che si innesta in una congiuntura di bassa crescita mondiale, frenerà fortemente lo sviluppo, la voglia di investire, mentre prevarrà l’avversione al rischio. Uno scenario molto preoccupante per i Paesi ad alto livello di debito pubblico e con banche fragili.

Tra il 1973, anno d’ingresso della Gran Bretagna nella Cee a oggi, i tassi di crescita della ricchezza e di progresso economico in Europa sono stati rilevantissimi perché il guardare avanti, in forma collettiva, con grande fiducia e ottimismo ha alimentato i grandi cambiamenti positivi, ora invece prevarranno le incertezze e le instabilità; propellenti potenti che freneranno fortemente la diffusione
del benessere.

Ma se questo è lo scenario che si presenta davanti a noi non sarebbe meglio prima di soccombere alla stupidità provare a fare sulla scacchiera europea una mossa spiazzante verso i dietrologisti? Sospendere i negoziati per l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, convocare un summit tra i primi cinque o sei Paesi europei (Gran Bretagna inclusa) e decidere di rilanciare il progetto europeo su
nuove basi da sottoporre
entro due anni all’approvazione di tutti i popoli europei, britannici inclusi?

È meglio avere un giocattolo essenziale ma logoro che perde paurosamente i suoi pezzi migliori o provare a farne uno nuovo, più moderno, forte e ben funzionante? La risposta che sapremo dare a questa domanda è quella che può illuminare, bene o male, la vista su quale sarà il nostro futuro di europei.

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