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Le norme mai usate (ma non c’era stata Brexit)

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L'Analisi|Europa

Le norme mai usate (ma non c’era stata Brexit)

Da quando è entrato in vigore, il primo gennaio 2016, il bail-in sui salvataggi interni non è mai stato usato e i detentori di bond senior e depositi oltre i 100mila euro in Europa non hanno subito perdite. Non sarà l’Italia, Paese che non è ricorso alla bad bank e a massicci aiuti di Stato per ricapitalizzare le banche, a mettere per primo in pratica il bail-in, rischiando l’effetto domino su 600 miliardi di strumenti subordinati e senior in circolazione. L’Italia intende invece mettere in pratica altre norme finora mai usate, che consentono in circostanze eccezionali di ricapitalizzare un banca con intervento pubblico senza burden sharing tra retail e istituzionali: questo per evitare l’instabilità.

Il bail in, che prevede il salvataggio interno di una banca con la ripartizione delle perdite e l’eventuale ricapitalizzazione a carico di tutti i creditori ove necessario fino ai depositi oltre i 100nila euro, non interessa proprio l’Italia perché non c’è un caso di dissesto bancario imminente da affrontare. Il sistema bancario nel complesso è solido. Non è nelle carte, neppure dopo lo stress test del 29 luglio, un problema di un istituto con un ammanco di capitale grave, con dato in negativo, stando a fonti bene informate. L’Italia si sta preparando per tutt’altro intervento “soft”: facendo appello a norme in vigore con annesse deroghe - nella Brrd art.32 comma 4 lettera (d i, ii, iii e art. 59 comma 3 lettera (e e l’art. 45 della Comunicazione della Commissione 1° agosto 2013 sugli aiuti di Stato consentiti a sostegno delle banche- lo Stato italiano intende ottenere il via libera della Commissione nel caso in cui fosse necessario un intervento pubblico per ricapitalizzare una banca, in bonis e solvibile, che ha una carenza di capitale in seguito allo stress test del 29 luglio (carenza che poi risulterebbe nero su bianco nell’esame Srep che si conclude a fine anno) senza far scattare il burden sharing, cioè la svalutazione “senza indugio” o la conversione dei prestiti subordinati in azioni, con perdite notevoli per i sottoscrittori dei bond.

In un’Europa che sulla regolamentazione bancaria è un cantiere aperto da anni, con innumerevoli norme intrecciate tra di loro ed entrate in vigore da poco tempo oppure mai collaudate e comunque esposte alle interpretazioni più diverse, l’Italia ha deciso di appellarsi e mettere in pratica tre articoli che, in maniera complementare tra di loro, consentono «un sostegno finanziario pubblico straordinario» e dunque allo Stato di sottoscrivere anche l’intera carenza di capitale individuata su una banca in bonis in seguito a uno stress test, senza far scattare il burden sharing, «al fine di evitare o rimediare a una grave perturbazione dell’economia di uno Stato membro e preservare la stabilità finanziaria». Tutto questo, sotto il cappello dell’art. 45 e quindi subordinato «all’approvazione finale nell’ambito della disciplina degli aiuti di Stato dell’Unione». Misure con carattere «cautelativo e temporaneo», proporzionate per rimediare alle conseguenze della grave perturbazione e non utilizzate per compensare le perdite che l’ente ha accusato o rischia di accusare nel prossimo futuro.

Lo Stato italiano dunque, e questa sì sarebbe la prima volta nell’ambito della Brrd, può intervenire a sostegno di un ente solvibile per preservarne la stabilità. In caso contrario, se dovesse scattare il burden sharing in seguito a uno stress test, il mercato sarebbe costretto a fare un nuovo pricing dei prestiti subordinati, probabilmente ad abbassarne il prezzo e aumentarne il rendimento, perché il rischio di perdita sarebbe palesemente ingigantito dal rischio-regolatore, dalla vigilanza prudenziale che testa i bilanci delle banche e li mette a ferro e fuoco in scenari molto avversi. Alcuni investitori, grandi e piccoli, potrebbero decidere di non volersi più esporre a nuovi colpi di scena, uscendo del tutto dal mercato dei subordinati. I bond subordinati in circolazione delle banche italiane ammontano a 66 miliardi e destabilizzare questo mercato, questo strumento, nel pieno dell’incertezza post-Brexit è un rischio aggiuntivo che l’Italia, e l’Europa tutta, potrebbero evitare di correre. Per 5 miliardi - al massimo - di intervento.

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