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Esce di scena Cameron, travolto dal suo errore storico

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L'Analisi|Europa

Esce di scena Cameron, travolto dal suo errore storico

Se ne va con la misera consolazione di avere avuto ragione. Se fosse rimasta nell’Unione europea alle condizioni negoziate nel febbraio scorso, la Gran Bretagna avrebbe avuto «il meglio di due mondi», con un piede dentro e uno fuori dalla Ue. La cecità di molti, l’avidità di alcuni, l’arroganza di troppi l’ha tradita, scolpendo l’epitaffio sulla lapide della carriera politica di David Cameron.

La liturgia degli addii tributa al premier in uscita meriti che non si scorgono dietro la cortina alzata dalla Brexit, spartiacque storico che tutto cancella. Il capo del governo britannico ha presieduto ieri l’ultimo consiglio dei ministri, oggi sosterrà l’ultimo Question Time ai Comuni, poi farà visita a Elisabetta II con la lettera formale di dimissioni, infine, dopo sei anni a Downing Street, procederà con il trasloco alla volta di una casetta di North Kensington, zona up and coming di Londra.

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A una manciata di settimane dal giro di boa dei 50 anni David Cameron lascia, schiantato dal suo unico errore, davvero letale. Aver ceduto alle pressioni del partito, organizzando il referendum sulla partecipazione britannica all’Unione è e resta, infatti, la colpa suprema. Per almeno due buone ragioni.

Il primo peccato implicito alla Brexit è il fallimento dell’analisi socio-politica del Paese che stava governando. Per arroganza o superficialità, o per un mix di entrambe, David Cameron non ha saputo comprendere come un quesito del genere avrebbe saldato in un unico “no” all’Europa tre mondi differenti. Gli eurofobi e gli euroscettici insieme con le lower classes del nord d’Inghilterra e gli antagonisti per vocazione. Un fronte compatto di anti Ue, anti Cameron, anti global la cui forza il premier non aveva saputo immaginare.

Il secondo peccato è quella hybris che gli faceva credere di potere risolvere le intemperanze del partito conservatore con un approccio maschio a un tema che andava trattato con la cautela di una levatrice. «Il Tory party – diceva – deve finirla di far sconquassi sull’Europa», un male che divide i conservatori dal giorno stesso dell’adesione alle istituzioni comuni. Un male, per essere precisi, che taglia trasversalmente la società britannica oltre ogni limite ideologico anche se fra i Tory i toni sono storicamente incendiari. Un atto di forza non avrebbe mai potuto, né potrà mai, risolvere la questione, riunificando il partito. Nè, crediamo, metterà i Tory al riparo dall’Ukip, forza che non dilaga solo perchè arginata da un sistema elettorale tanto efficace nel garantire governabilità quanto incapace di rappresentare la volontà popolare.

Il Tory party resta spaccato, l’Ukip rimane forza minacciosa, i ceti meno abbienti nel depresso Settentrione d’Europa continueranno a contestare le politiche di un governo di destra come sarà ovviamente quello di Theresa May. Il fallimento di David Cameron, tuttavia, va molto oltre questi epifenomeni di congiuntura politica, perché il nome del premier uscente sarà eternamente legato al divorzio britannico dall’Unione, a una crisi, quindi, di rilevanza storica, la più grave dal Dopoguerra. Il paragone con il suo predecessore a Downing Street Neville Chamberlain sollevato in queste ore , francamente, non regge, quello con un altro illustre ospite finito nella polvere, Anthony Eden, forse, un poco di più. Il grado sarà pure diverso, ma la categoria della colpa è, comunque, quella.

Nulla può alleviare un macigno di queste dimensioni. Non la vittoria al referendum scozzese, un altro errore politico che solo il caso ha evitato si trasformasse in secessione di Edimburgo. Né il risanamento economico del Paese, una medaglia che David Cameron può appuntare al suo petto ma che dovrebbe, quantomeno, condividere con il cancelliere George Osborne e, soprattutto, con la Banca d’Inghilterra. In ogni caso è un merito che può vantare perché fino al 23 giugno Londra era la più dinamica economia del mondo occidentale, con un tasso di crescita fra il 2 e il 3%, e occupazione ai massimi storici seppure sulla scorta di contratti di lavoro ( ci riferiamo a quelli cosiddetti “zero ore”) che solo l’approssimazione statistica può considerare full employment.

Per questo, paradossalmente, David Cameron può rivendicare a sé un amaro “successo”: aver negoziato un accordo con l’Europa che avrebbe garantito alla Gran Bretagna un ruolo esclusivo nel consesso dell’Unione, con caveat e opt-out unici.«Il meglio di due mondi» non era solo uno slogan di Remain, ma una realtà che una scia di menzogne ha sommerso, incoraggiando gli elettori a dire di “no” e a chiedere, virtualmente, sempre di più. Cecità, avidità, arroganza hanno sconfitto David Cameron, sospingendo, il 23 giugno, un Paese intero a perdere il senso del limite.

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