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Dura poco la festa di Damasco

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Asia e Oceania

Dura poco la festa di Damasco

  • –Roberto Bongiorni

A notte inoltrata, quando il colpo di Stato in Turchia sembrava avviato al successo, centinaia di manifestanti si sono riversati sulle strade di Damasco. Festeggiamenti e spari per celebrare una clamorosa quanto inattesa notizia, rivelatasi poi infondata: il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, l’acerrimo nemico del presidente siriano Bashar al-Assad, era stato destituito.

Agli occhi di molti siriani il ritorno al potere dell’esercito turco significava coltivare la speranza di un ritorno alla normalizzazione dei rapporti commerciali, ai tempi in cui Siria ed Iran erano tra i maggior partner della Turchia. Poi è arrivata la primavera araba in Siria, presto degenerata in un conflitto civile che in quattro anni ha ucciso 270mila persone ed ha sparigliato le carte. Il Medio Oriente si è diviso - tra alleati e nemici di Assad - e poi polverizzato.

Ma se c’è un capo di Stato che non ha mai smesso di porre come priorità le dimissioni di Assad, anche quando perfino Paesi come gli Stati Uniti preferivano mantenere lo status quo sul campo anziché vedere la bandiera dell’Isis a Damasco – questo è stato proprio lui: Erdogan, il nuovo sultano.

Sin dall’inizio il presidente turco è stato uno dei protagonisti nella sempre più complessa guerra civile siriana. Il presidente americano Barack Obama si era illuso, sbagliandosi, che la Turchia potesse rappresentare una formidabile testa di ponte contro lo Stato islamico. Erdogan ha invece giocato spesso un ruolo ambiguo (o un atteggiamento intenzionalmente ambivalente) nei confronti dei movimenti estremisti islamici, primi fra tutti l’Isis e il movimento qaedista Jabath al-Nusra.

Se da un lato il presidente turco ha autorizzato l’uso della base militare di Incirlik per far decollare i caccia americani diretti a bombardare le postazioni dell’Isis, dall’altro ha permesso il transito dalle frontiere turche di migliaia di miliziani stranieri – anche pericolosi jihadisti – decisi ad unirsi nelle file dell’Isis e di al-Nusra. I traffici di petrolio tra Califfato e Turchia sono poi solo un tassello di uno scenario complesso e ambiguo.

Prova ne è che a lungo le autorità turche hanno tollerato l’attività in rete di siti jihadisti finalizzati a reclutare volontari per il jihad. La priorità era far cadere Assad. Con ogni mezzo .

Erdogan ha sì deciso di far parte della coalizione internazionale contro l’Isis, ma anche quando è sembrato più deciso nella sua azione per compiacere gli alleati occidentali ha rivolto sovente le armi non contro lo Stato islamico, ma contro le milizie curde siriane dello Ypg, da lui definiti i veri terroristi, per quanto alleati degli Usa nella guerra contro l’Isis. Insomma, quella che è stata venduta come una guerra all’Isis in realtà è stato più una guerra contro i curdi del Pkk e dello Ypg. La conferma era già arrivata a fine febbraio, quando Russia e Stati Uniti avevano annunciato un accordo per una tregua in Siria, da cui dovevano essere esclusi solo al-Nusra e l’Isis. I curdi siriani dello Ypg «devono essere esclusi dal cessate il fuoco», «esattamente come lo è l’Isis», aveva tuonato Erdogan. L’allora suo premier, Ahmet Davutoglu, aveva aggiunto benzina sul fuoco: «Quando si tratta della sicurezza turca non chiediamo autorizzazioni, ma facciamo ciò che è necessario».

D’altronde Erdogan vedeva come il fumo negli occhi le continue vittorie sul campo delle forze curde nella Siria settentrionale. In mano all’Isis resta ormai una striscia di confine di soli 80 km tra Azaz e Jarabulus. Se i curdi fossero riusciti a controllare tutto il confine, sarebbero stati creati i prodromi di un nuovo Stato . E per Erdogan la creazione di uno Stato curdo alle porte di casa sembra di gran lunga più inaccettabile della presenza dei jihadisiti del Califfato. Che peraltro ha cercato di manipolare a lungo. Ma il gioco gli è sfuggito di mano. L’Isis è divenuto troppo potente e le pressioni su Erdogan affinchè bloccasse i passaggi dei foreign fighters, cosa che in buona parte ha fatto, hanno innescato la reazione dell’Isis. Che si è rivoltato contro la Turchia con una serie di attentati kamikaze (l’ultimo, in giugno, contro l’aeroporto di Istanbul in giugno). Erdogan ha reagito a sua volta. Sembrava davvero intenzionato a combattere il Califfato. «La Turchia ha ucciso 3mila jihadisti dell’Isis» aveva dichiarato. «Nessun altro Paese combatte» questa organizzazione terroristica come la Turchia. In verità le cose non stavano esattamente in questi termini.

E ora? Dopo il fallito golpe le cose rischiano di complicarsi ulteriormente. In una Turchia instabile, dove non è dato sapere cosa sta veramente accadendo all’interno del secondo esercito della Nato, l’accordo a cui stanno lavorando Stati Uniti e Russia per combattere insieme l’Isis e i movimenti qaedisti in Siria appare più difficile da mettere in atto. La chiusura, si spera temporanea, della base di Incirlik non è di buon auspicio. Quale sarà il nuovo Erdogan, il presidente del dopo -golpe? Un capo di Stato meno forte? Oppure più compiacente verso l’Occidente? O un presidente ossessionato dalla paura di trame e complotti, deciso a fare piazza pulita dei rivali, diffidente anche verso i Paesi europei? Come sarà gestita ora l’emergenza rifugiati? Solo lo tempo lo dirà.

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