La Commissione europea terrà oggi un nuovo dibattito di orientamento sulla questione se concedere o meno lo status di economia di mercato alla Cina. Il collegio dei commissari ha ormai ridotto a tre le opzioni su cui decidere. Quella più attraente è una specie di terza via. In questo senso, l’esecutivo comunitario dovrebbe anche annunciare nuovi metodi di calcolo dei dazi anti-dumping in modo da tenere in conto l’influenza statale nei Paesi che esportano verso l’Unione.
Il protocollo d’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del Commercio, risalente al 2001, prevede che dopo 15 anni da quella data i partner di Pechino debbano valutare se modificare lo status di Pechino. Poiché la concessione dello status di economia di mercato alla Cina comporterebbe giuridicamente un allentamento delle difese commerciali europee nei confronti dei prodotti cinesi, il timore di molti è che i mercati europei sarebbero invasi da merce a basso costo.
Secondo le informazioni raccolte qui a Bruxelles, tre sono le opzioni che i commissari discuteranno oggi. La prima è quella di non modificare la legislazione attuale dopo la scadenza del Protocollo del 2001. L’opzione è controversa e rischia di provocare l’ira del governo cinese, che da tempo chiede la concessione dello status di economia di mercato. Il rischio in questa circostanza è che l’Unione sia oggetto di ritorsioni commerciali e di ricorsi davanti all’Organizzazione mondiale del Commercio.
La seconda opzione è di modificare il parametro di calcolo dei dazi sui prodotti cinesi. Oggi l’Europa usa come riferimento il prezzo di Paesi terzi. Nel prendere atto della scadenza del Protocollo del 2001, la possibilità è di ricorrere al metodo standard di calcolo e considerare i prezzi imposti dai produttori cinesi sul proprio mercato nazionale. Nei fatti, questa scelta si tradurrebbe nella concessione dello status di economia di mercato alla Cina, con tutte le sequele negative che ciò potrebbe avere per l’industria europea.
Infine, la terza ipotesi – quella che appare più probabile – è di mettere a punto «una nuova archiettura forte», secondo l’espressione di un esponente comunitario. Questa ipotesi si basa su tre canali: la conservazione delle regole attuali per i controversi casi commerciali già aperti; il netto rafforzamento del monitoraggio anti-dumping; il calcolo dei dazi sulla base non dei prezzi applicati in Paesi terzi o nella Repubblica popolare, ma sulla base di un riferimento più generale e internazionale.
Questa terza ipotesi è stata oggetto di uno studio di impatto rassicurante: le conseguenze negative sul fronte della disoccupazione sarebbero limitate a non più dello 0,01% del mercato del lavoro. A rischio in Italia sarebbero 3.300 posti di lavoro. Nei fatti, la Cina otterebbe agli occhi dell’Unione uno status neutrale, meno controverso delle altre due ipotesi. Secondo le informazioni raccolte qui a Bruxelles, il collegio dei commissari non dovrebbe prendere alcuna decisione formale oggi.
Ciò detto, la stessa Commissione dovrebbe annunciare che intende proporre nel prossimo futuro nuove e generali regole per calcolare il dumping di prodotti importati da Paesi segnati da distorsioni di mercato o dove lo Stato ha una influenza pervasiva. Una volta messe a punto e presentate, le nuove regole dovranno essere approvate dal Consiglio e dal Parlamento. Quanto al caso cinese, l’esecutivo comunitario l’esecutivo comunitario è alla ricerca di una delicata sintesi.
Da un lato, il gigante asiatico non è solo un aggressivo esportatore che rischia di penalizzare l’industria europea; è anche un cruciale partner economico che l’Europa non vuole e non può inimicarsi. Proprio ieri, l’Unione ha aperto presso il Wto un terzo procedimento legale contro le restrizioni cinesi all’export di materie prime essenziali per l’industria europea. Si tratta di grafite, cobalto, rame, piombo, cromo, magnesio, talco, tantalio, stagno, antimonio e indio.
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