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Taglio tassi dimezzato, ma la lira cade

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Taglio tassi dimezzato, ma la lira cade

Come vanno gli affari dopo il colpo di stato? Anche la finanza nella Turchia del controgolpe di Erdogan viene epurata: insieme a 21mila insegnanti, 1.500 rettori di Università, sono stati fatti fuori anche 1.600 dipendenti del ministro delle Finanze. La fiducia è la materia prima più carente in un Paese dove sono stati silurati oltre 10mila tra militari, poliziotti, giudici e persino 250 dipendenti dell’ufficio del primo ministro. Nella più grande purga mai vista in un Paese Nato è stata chiusa anche una banca che apparteneva al network dell’arcinemico di Erdogan, l’imam Fetullah Gulen, accusato di essere l’ispiratore del golpe dal suo esilio negli Stati Uniti: sportelli chiusi quindi alla Bank Asya e sospeso il titolo in Borsa.

Le agenzie come Moody’s annunciano sfracelli sul rating e come se non bastasse la Banca centrale taglia di un quarto di punto il tasso overnight (8,75%) punendo ulteriormente la valuta turca e i rendimenti per gli investimenti esteri: la lira arranca, a quota tre per un dollaro, la Borsa annaspa (ieri -1%), un quarto dei capitali stranieri in un anno ha preso il volo, le riserve ammontano soltanto a 30 miliardi di dollari mentre le banche turche hanno 120 miliardi di dollari di debiti con istituti di credito stranieri.

La crescita, proiettata verso un ottimistico 5%, vive soprattutto di consumi interni alimentati dagli ultimi aumenti salariali del 30% e dall’afflusso dei profughi siriani, 3 milioni di bocche da sfamare: fino a quando durerà l’”economia Erdogan” che elargisce un insostenibile “welfare” a venti milioni di turchi con alloggi popolari e sanità gratuita?

Ma Erdogan tiene duro e forse qualcuno gli eviterà l’abbraccio soffocante di Fondo monetario e Banca mondiale: un “golpe” finanziario delle istituzioni di Bretton Woods è forse più pericoloso di un putsch male organizzato dei militari. I piani di Fmi e World Bank possono rendere “ragionevole” anche lui che nel 2013, ai tempi della rivolta di Piazza Taksim, si lanciò in feroci attacchi contro «la lobby dei tassi di interesse».

Eppure a Erdogan le banche piacciono. Una parabola significativa quella della Bank Asya, istituto di credito che lo stesso Erdogan aveva inaugurato nel 1996 quando lui e Gulen erano amiconi: in breve tempo toccò un bilancio, per nulla disprezzabile, di 13 miliardi di dollari. È stato questo uno dei polmoni finanziari che hanno sostenuto l’ascesa del partito Akp e finanziato anche i media di Gulen, ai quali ieri sono state revocate le licenze. Da quando i due nel 2013 litigarono le attività sono precipitate ma il titolo è salito in Borsa del 45%, infiammato dalle voci di una possibile vendita ai nuovi alleati di Erdogan: i sauditi.

Islam e finanza in Turchia vanno da tempo a braccetto. Prima della rottura, Gulen controllava più o meno direttamente asset per 25 miliardi di dollari, oltre a una rete di scuole e istituzioni che hanno sfornato gli stessi quadri del partito Akp. Ma già ai tempi dell’ex premier islamico Necmettin Erbakan la Turchia guardava agli investimenti delle monarchie arabe del Golfo, favorite dai legami con i Fratelli Musulmani poi ereditati da Erdogan.

Erdogan e l’Akp sono sempre stati ottimi amici del Qatar, sostenitore dei Fratelli Musulmani mentre l’ex presidente Abdullah Gul aveva buoni rapporti con l’Arabia Saudita dove aveva lavorato come funzionario di banca. Poi i Fratelli musulmani sono andati al potere in Egitto e le relazioni tra Ankara e Riad si sono raffreddate con il colpo di stato del generale Al Sisi: la monarchia dei Saud ha sempre considerato la confraternita un nemico. La guerra in Siria contro Assad ha riavvicinato turchi e sauditi e ora Riad media con il Cairo per costituire un fronte sunnita insieme alla Turchia. Ma secondo i dati della Banca centrale turca, l’85% degli investimenti stranieri diretti viene dall’Europa e dagli Usa: 130 miliardi di dollari in 13 anni. Gli investimenti azionari seguono lo stesso trend: su 40 miliardi di azioni, il 40% è targato Usa, solo il 2,4% Arabia Saudita. Per salvare la “Erdogan Economy” le monarchie arabe dovranno mettere mano al portafoglio.

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