Il fallito colpo di stato in Turchia e il successivo passo verso la svolta autoritaria di Erdogan sta spaventando gli investitori internazionali che negli ultimi 14 anni sono affluiti in massa sul Bosforo.
Negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2001-2002, la Turchia era tornata ad attrarre capitali: l’Institute of International Finance (Iif), l’associazione delle maggiori banche del mondo, ha calcolato che gli investitori stranieri hanno investito in flussi di portafoglio più di 150 miliardi di dollari nei mercati azionari e obbligazionari turchi dalla fine del 2003.
Sempre l’Iif ha calcolato che gli investimenti diretti esteri (Ide), in fabbriche e proprietà turche hanno raggiunto i 163 miliardi di dollari.
Gran parte di questo successo è stato possibile grazie al varo di riforme liberiste volute da Tayyip Erdogan a partire dal 2003. Riforme che hanno privatizzato, messo ordine nei conti pubblici e aumentato il capitale delle banche, mettendo in soffitta i vecchi problemi della Turchia, come colpi di stato militari, aumenti del debito pubblico, inflazione galoppante. Ora, improvvisamente, i vecchi vizi possono ritornare.
Gli investitori hanno assistito alla lira che ha perso valore sul dollaro fino ad arrivare a 3,09, la Borsa che ha perso il 14 % da lunedì e S&P’s che ha abbassato il rating a BB-, cioè portando i bond turchi a livello di “junk”, spazzatura. Nervosismo che potrebbe congelare l’afflusso di nuovi investinenti diretti e far cambiare rotta ai flussi di portafoglio.
Molti investitori sono spaventati dalla durezza della risposta di Erdogan al colpo di stato, con decine di migliaia di militari, funzionari pubblici, giudici e accademici licenziati, arrestati o sospesi e uno stato di emergenza dai contorni molto confusi imposto al paese.
C’è preoccupazione anche per la crescita economica che potrebbe frenare a causa di un calo dei consumi interni, l’aumento dell’inflazione, una politica monetaria poco autonoma. Tutti elementi che potrebbero erodere i dividendi degli investitori. Tutti gli occhi sono sul deficit delle partite correnti pari a 30 miliardi di dollari, elemento di fragilità che richiede afflusso costante di denaro estero.
Se i flussi di portafoglio, dovessero vendere azionie bond turchi per trovare lidi sicuri, sarebbe un problema visto che quest’anno la stagione turistica è compromessa.
La Turchia aveva guadagnato lo status di investment grade solo nel 2013, ma ora questa conquista di nuovo in pericolo. L’eventuale perdita di questi rating potrebbe far scappare gli investitori istituzionali rendendo allo stesso tempo più costoso per le aziende e le banche raccogliere fondi.
Per questo molte banche, tra cui Morgan Stanley, Société Generale, BNP Paribas e Citi, hanno suggerito di ridurre l’esposizione. Una situazione critica visto che il 64% delle azioni turche è in mani straniere. Ma non tutti sono negativi: i gestori di Aberdeen, Baring e Berenberg hanno detto che il crollo dei prezzi potrebbe rappresentare una opportunità per acquisti a buon mercato, dato il potenziale di lungo termine di Ankara.
Alcuni fondi però richiedono un rating da investment grade da almeno due grandi agenzie di rating. Se quindi Fitch e Moody dovessero seguire il declassamento deciso da S&P’s, sarebbero dolori. JPMorgan ha calcolato che un downgrade del rating turco da parte di un’altra agenzia costringerà i fondi a vendere 10 miliardi di dollari di titoli turchi, pari al 10% del debito locale in valuta. Senza dimenticare che degli 80 miliardi di lire del mercato dei bond turchi, il 18,8% è in mani straniere. Se spaventa i mercati Erdogan non deve poi gridare al “complotto internazionale”.
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L’analisi di Dani Rodrik