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Theresa May alla ricerca di una politica industriale

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L'Analisi|L’analisi

Theresa May alla ricerca di una politica industriale

The State is back! Un'iperbole che, come tutte le figure retoriche, porta con sé elementi di verità, soprattutto in un momento in cui l'economia britannica sta entrando in recessione.
L’arrivo di Theresa May a Downing street non significherà, crediamo, il ritorno dello Stato-padrone, ma offre già spunti di una svolta che ridimensiona l’eredità del thatcherismo, per come, almeno, lo hanno interpretato gli epigoni della prima signora che occupò Downing street. Un conservatorismo “democristiano” per affidarsi alla felice immagine di Janan Ganesh, commentatore di Ft, e non solo perchè carico della morale lasciata dal pastore anglicano Hubert Brasier alla figlia Theresa (Brasier) May. Anche Margaret (Roberts) Thatcher, si obietterà, portava con sè il marchio di un’etica figlia del metodismo che impregnava casa Roberts.

La discontinuità fra quel passato segnato dalla centralità dell’individuo nel nome di liberismo a tutto tondo e il possibile futuro della Londra post Brexit emerge - con ampi gradi di approssimazione - dalle parole e dalle mosse di queste prime settimane di gestione May. La proposta di inserire rappresentanti dei lavoratori nei board delle società, di conferire agli azionisti maggior potere per limitare le retribuzioni del management, di varare regole più rigide sul takeover di imprese straniere fanno già parlare di riforma del capitalismo sotto i colpi di una rinascente “politica industriale”, concetto scomparso dal lessico nazionale. Una svolta che dovrà ridare spazio ai campioni nazionali, perduti sotto i colpi di quella deregulation divenuta totem ideologico dei governi britannici. Prodotto esportato - e apprezzato - in mezzo mondo. È presto per dire – non ci stanchiamo di ripeterlo - se siamo davvero giunti al tramonto di un modello che ha fatto della Gran Bretagna la success story d’Europa, ma i segnali sono incessanti.

Il colpo di freno allo sviluppo di Manchester come polo del nord, nel tentativo di replicare Londra, è significativo. Theresa May punta a disperdere sul territorio le iniziative pubbliche e ad agevolare quelle private con approccio ecumenico per evitare di favorire “i soliti fortunati”. L’accento è sempre più sulla redistribuzione del benessere a tutto il Paese. Una strategia che passa dal rilancio della manifattura, nel tentativo di ridarle il ruolo perso nella grande ubriacatura della finanza.

È il prologo a una svolta radicale – che cosa resterà della Big Society tanto vagheggiata, ma mai concretizzata da David Cameron ? – quella che prende forma in queste ore di consolidamento del potere da parte di Theresa May .Va maturando ora perché le emergenze di Brexit offrono l’opportunità del cambio. Il percorso delle future relazioni anglo-europee preferito dalla signora premier sembrerebbe cominciare a definirsi, in linea con questo impianto di neo-conservatorismo sociale. Il condizionale lo impone la lettura di eventi che nascono dall’esegesi del verbo di Nick Timothy, chief of staff a Downing street. Brexiter moderato ed eterodosso, Nick Timothy è un sostenitore della partecipazione britannica al mercato interno e quindi non sembra deciso ad alzare mura invalicabili né sul tema dell’immigrazione intraeuropea nè sul costo – economico – della membership, piatti forti della campagna di Leave. In altre parole se per Downing street “Brexit means Brexit” dall’Ue, non necessariamente è un “no” allo Spazio economico europeo, al modello norvegese, senza correzioni, che impone un prezzo elevato per la piena membership al single market, negando qualsiasi ruolo nella formazione normativa. Uno scenario da molti considerato il fallimento incondizionato della strategia europea di Londra, carico com’è di oneri per poter preservare vantaggi oggi garantiti dalla membership all’Ue. In realtà è l’unico compromesso possibile per rispettare la volontà popolare espressa nel referendum del 23 giugno e salvaguardare il benessere del Regno Unito. Una scelta in sintonia con l’altra evidente discontinuità che la signora premier – una volta di più su suggerimento del suo advisor – ha deciso di adottare. Ci riferiamo al passo indietro verso la Cina sul tema delle centrali nucleari, reso acuto dal possibile fallimento del progetto di Hinkley Point co-finanziato da imprese cinese e congelato per espressa volontà di Downing street scettica sugli “eccessi” di David Cameron a favore di Pechino. Se l’intesa per le centrali salterà, la replica della Repubblica popolare potrebbe essere durissima. Londra antepone valutazioni di opportunità politica – la Cina col dito sul nucleare civile britannico – a quelle di natura strettamente economica.

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