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I repubblicani temono la disfatta

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I repubblicani temono la disfatta

  • –Marco Valsania

NEW YORK

Non sarà forse una risata a seppellire i sogni di potere di Donald Trump, ma potrebbe essere il piagnucolio d’un bambino. La stizza ha avuto la meglio sulla sicumera del candidato repubblicano in un recente comizio in Virginia, quando ha intimato a un neonato che piangeva in braccio alla madre di «togliersi dai piedi». Una stizza che nasce però da una paura profonda, dall’improvvisa comparsa dello spettro d’una catastrofe elettorale.

Trump vuole conquistare la Casa Bianca a novembre. Ma, a meno di cento giorni dal voto, la sua nomination da parte del partito minaccia di trasformarsi in una vittoria di Pirro. Anziché pronto per l’appuntamento con le urne presidenziali di novembre e lo scontro con l’avversario democratico Hillary Clinton, Trump appare goffo prigioniero della sua politica-spettacolo, di litigi, vendette personali e disorganizzazione autocratica, incapace di mobilitare le “sue” forze. Anzi, semmai capace di mandare in frantumi la coalizione conservatrice, precipitandola in una crisi d’identità e in spirali di faide interne che potrebbero condannarla a una sconfitta epica. Al cosiddetto “electoral wipeout”, spazzata via dalla mappa elettorale, ha ammonito un veterano stratega repubblicano del Texas.

Se finora i repubblicani allineandosi con Trump immaginavano di allargare l’impero dei loro voti passando per il Mid-West grazie alla nuova breccia di Trump nell’elettorato bianco e popolare della Rust belt, dal Michigan alla Pennsylvania, adesso lo spettro assai concreto è l’implosione di un candidato che perde nelle regioni industriali come nell’Ovest ispanico, dal Colorado al Nevada, e nelle punte avanzate del Sud quali il North Carolina. Che invece di rinverdire il successo di Ronald Reagan, creando i Trump democrats sulla scorta dei Reagan Democrats, dà vita al fenomeno opposto, i Clinton Republicans.

La guerra civile repubblicana miete ormai punti nei sondaggi e vittime tra esponenti di spicco. Clinton, un tempo in affanno, veleggia nell’opinione pubblica nazionale con nove punti di vantaggio, stando agli ultimi rilevamenti del Wall Street Journal e della rete Tv Cbs. Vale a dire un distacco superiore a quello che Barack Obama vantava contro il pallido Mitt Romney negli stessi giorni della corsa del 2012. Più preoccupante ancora è l’emorragia di esponenti repubblicani, uomini e donne d’affari, politici. Tra i traditori eccellenti c’è Meg Whitman, amministratore delegato di HP e grande finanziatore del partito oltre che ex candidato a governatore della California. C’è il veterano deputato di New York Richard Hanna. Ci sono Henry Paulson di Goldman Sachs, ex Segretario al Tesoro di George W. Bush, e Richard Armitage, ex vicesegretario di Stato e della Difesa.

Una dura presa di posizione è arrivata dall’ex portavoce di Reagan, Doug Elmets: ha definito Trump «squilibrato e inadatto alla presidenza» e ha invitato i repubblicani a «mettere la lealtà per il Paese davanti a quella per il partito». Numerosi sono anche coloro che si tirano semplicemente indietro, magari sperando segretamente in un golpe che sostituisca in extremis il candidato. La dinastia Bush ha visto la ex First Lady Barbara sbottare di non poter immaginare una donna che voti per Trump. Max Boot, ex consulente di politica estera di Marco Rubio, Mitt Romney e John McCain, ha ironizzato che «non c’e modo di andare a letto con Trump e non prendersi i pidocchi». E su una più dolente nota ha ammonito di temere «danni di lungo termine per i repubblicani». Vale a dire che la rivoluzione trumpiana assomiglia piuttosto a una rissa, che potrebbe lasciare il partito con una leadership tramortita.

Le defezioni quotidiane hanno raggiunto l’Harvard Republican Club, la più antica associazione universitaria del partito, che per la prima volta dal 1888 rifiuta di appoggiare un candidato repubblicano.

I leader più in vista del partito a Washington, il capogruppo alla Camera Paul Ryan e quello al Senato Mitch McConnell, sono costretti a esercizi di sempre più scomodo equilibrismo. Mantengono l’appoggio a Trump ma tengono le distanze e, più della battaglia per la Casa Bianca, invocano l’elezione di un Congresso repubblicano che difenda un’agenda conservatrice e liberista, nei fatti diversa dall’isolazionismo, protezionismo e populismo razzista predicati da Trump. Così fanno anziani statisti del partito del calibro del senatore John McCain, che ha criticato Trump per aver denigrato la famiglia Khan, i genitori di un militare musulmano-americano caduto in Iraq intervenuti alla Convention democratica.

La scomodità odierna, per i repubblicani, potrebbe tuttavia essere foriera di ben altri travagli domani. Newt Gingrich, finora un alleato, ha avvertito Trump che alle urne non potrà licenziare chi non gli piace, è l’elettorato che può dargli il benservito. A lui e al partito repubblicano.

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