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Usa, più occupazione ma meno opportunità

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Usa, più occupazione ma meno opportunità

  • –Riccardo Sorrentino

Sette anni di continua espansione. Una disoccupazione al 4,9% con 2,4 milioni di posti di lavoro creati solo nell’ultimo anno: mai tante persone hanno avuto un posto di lavoro (anche se la popolazione è aumentata più rapidamente). E infine prezzi freddi, ma con pochi rischi di deflazione . Perché allora tanto malessere negli Stati Uniti? Perché emerge il fenomeno Donald Trump e, sul versante politico e ideologico opposto, quello di Bernie Sanders

Perché qualcosa è cambiato, in America. Non è più il paese delle opportunità, ma neanche - e la cosa può sorprendere - quello del grande dinamismo economico. Si è discusso a lungo, della continua polarizzazione del reddito e della ricchezza: i redditi reali della classe media sono rimasti fermi, o comunque sono cresciuti molto poco dagli anni 70, mentre quelli al di sopra del 90° percentile hanno accelerato dagli anni 90 in poi. Salari e stipendi non hanno neanche tenuto il passo di una produttività che negli ultimi anni ha poi bruscamente rallentato (anche se bisogna tener conto dei benefit, a cominciare dalle coperture assicurative sanitarie). La proposta di Trump, avanzata durante la campagna per la nomination, di innalzare il salario minimo a 10 dollari l’ora, «anche se non è molto repubblicana», voleva rispondere ad alcune di queste preoccupazioni.

Si è anche parlato a lungo della “cattiva globalizzazione”, quella che ha travolto la città di Detroit, dove ieri il candidato repubblicano ha lanciato il suo programma economico: sono entrate sul mercato del lavoro globale milioni di persone con salari molto bassi e non si è tenuto conto che molte delle economie emergenti - a cominciare dalla Cina - avevano un regime di cambi fissi o quasi fissi, che ha lasciato i lavoratori dei paesi avanzati privi anche della protezione dell’apprezzamento delle valute dei paesi esportatori. Il settore manifatturiero, che garantiva salari e produttività relativamente più elevati, si è ridimensionato fortemente, a vantaggio dei servizi. Di conseguenza i consumatori hanno goduto di prezzi più bassi su molti prodotti di largo consumo, ma diversi tra loro non sono stati in grado, per lo stesso fenomeno, di mantenere occupazione e reddito. La propostadi Trump di alzare i dazi sull’import cinese al 45% strizzavano l’occhio a coloro che sono stati colpiti da una sbagliata sequenza di liberalizzazioni.

Non c’è solo questo, però. È proprio il dinamismo dell’economia americana e del suo mercato del lavoro che è rallentato. Una serie di analisi realizzate dal Fondo monetario internazionale, dal National Bureau of Economic Research (Nber) e della Brookings Institution hanno mostrato un paese molto diverso da quello immaginato (e atteso dagli americani e dai tanti immigranti). I lavoratori non cambiano più lavoro così spesso (i “passaggi” da un posto a un altro sono calati del 40% dalla fine degli anni 80) e questo significa meno occasioni per ottenere aumenti di stipendio, anche perché è calata nel frattempo la frequenza dei negoziati sui salari tra imprese e lavoratori. Il ritmo di nascita (e morte...) delle imprese è rallentato, non solo nei settori tradizionali come il retail, ma anche - negli ultimi quindici anni - in quelli a più elevata tecnologia. Dal 2000 in poi sono diminuite le nascite di giovani aziende ad alta crescita - le start-up... - quelle che creano più posti di lavoro e che erano il motore del modello economico Usa. Molti settori sono sempre oggi più concentrati e meno concorrenziali rispetto al passato.

I motivi sono tanti. Alcuni sono normativi: alcune leggi rendono più difficile sia la nascita di nuove imprese, sia il ricollocamento dei lavoratori. Molti stati richiedono licenze e lunghi periodi di training per lavori come il fioraio (in Louisiana), il manicure (in Minnesota, dove sono richieste più ore di pratica che per i paramedici) o il “cosmetologo (che, sempre in Minnesotam deve seguire un piano di studi più lungo di un avvocato). Nel 1970 il 10% dei lavoratori aveva una licenza obbligatoria, e nel 2008 il 30%; e ora è immaginabile che il livello sia ulteriormente salito. C’è un’evidente ricerca di “rendite” - una licenza aumenta le retribuzioni del 15%, secondo una ricerca del 2009 di Morris Kleiner e Alan Krueger - che non si limita più al mondo della finanza, della sanità o della proprietà intellettuale (cinema, musica, ricerca), ma si allarga sempre più, altera l’allocazione delle risorse e la distribuzione dei redditi, e impedisce la conversione dei lavoratori.

L’invecchiamento della popolazione, negli Stati Uniti meno intensa che altrove, ha dato il suo contributo, ma anche - secondo l’analisi della Brookings - quella riduzione del livello di fiducia tra le persone che Trump sta abilmente sfruttando per costruire la sua corsa verso la presidenza.

Il risultato finale è allora drammatico. I redditi da lavoro perdono sempre più peso e vive in povertà un americano su sette, un bambino su cinque e una donne-capofamiglia su tre. Il 40% dei poveri, tra l’altro, un’occupazione ce l’ha.

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