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La difficile sfida di una difesa comune

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analisi

La difficile sfida di una difesa comune

«Dobbiamo proteggere meglio le frontiere europee e condividere di più le informazioni di intelligence. Vogliamo anche maggior coordinamento, più mezzi e più risorse nel settore della difesa» europea. Il varo di un concreto strumento militare dell’Unione doveva essere uno dei punti chiave del summit di Ventotene ma, come è già accaduto in altri vertici europei, su questo tema non si è andati oltre le frasi di circostanza.

Eppure oggi l’Europa avrebbe qualche opportunità di archiviare l’umiliante adagio che la vuole «gigante economico, nano politico e verme militare» coniato nel 1991 dall’allora ministro degli Esteri belga, Mark Eyskens. L’occasione è una delle conseguenze potenzialmente positive di Brexit, dal momento che Londra ha sempre concepito la difesa continentale come esclusiva della Nato, opponendosi alla nascita di uno strumento militare dell’Unione impiegabile per intervenire almeno nelle crisi nel giardino di casa. Gli ostacoli posti da Londra sono stati anche un alibi, ora venuto meno, per giustificare il permanere della condizione di “verme”.

Meglio non farsi troppe illusioni circa il fatto che i battlegroups in agenda nei lavori di Ventotene rappresentino un reale salto di qualità nella capacità di gestire le minacce. Costituiti da 1.500 militari, sono reggimenti dotati di diverse componenti (fanteria, mezzi corazzati, blindati, artiglieria, antiaerea) e di un supporto logistico in grado di assicurare da 2 a 4 mesi di autonomia. I partner maggiori dovrebbero mettere a disposizione unità complete, quelli minori singole componenti da “assemblare” nei battlegroups il cui impiego, con un preavviso di pochi giorni, dovrà essere assicurato da una forza aerea e navale europea.

I gruppi da combattimento Ue hanno avuto solo un “rilancio” dal summit di Ventotene perché la loro costituzione era stata approvata nel 2007, anche se non sono mai stati attivati. Il loro varo, poi naufragato nel nulla, rappresentò già un ridimensionamento delle ambizioni della Ue che nel 1999 voleva costituire un corpo d’armata con 60 mila militari, simile a quello schierato all’epoca dalla Nato in Kosovo.

Il vero problema non è insito nelle dimensioni o nella potenza di fuoco dello strumento militare ma nella capacità politica di attivarlo e impiegarlo nel nome di interessi condivisi in reali funzioni militari di deterrenza (per scoraggiare minacce) o belliche.

A cosa servono battlegroups schierabili in pochi giorni se a Bruxelles non bastano mesi per avere una posizione comune su una crisi in atto? Come si possono impiegare reparti congiunti se alcuni Paesi sono pronti a usare la forza in determinati contesti, altri consentono ai loro soldati di partecipare solo ad azioni difensive, altri ancora non vogliono coinvolgerli in prima linea e qualcuno rinuncia persino a prendere parte a operazioni militari? Ogni Stato europeo ha interessi diversi e spesso contrapposti a quelli degli altri partner come dimostrano le crisi in Siria e Libia (in cui l’Europa è assente) o le difficoltà a condividere informazioni d’intelligence sul terrorismo.

Negli ultimi 20 anni gli europei hanno costituito diverse brigate congiunte, formazioni che hanno effettuato molte esercitazioni ma nessun significativo impiego operativo. Sul mare è andata un po’ meglio con la flotta europea Atalanta che fa deterrenza alla pirateria nell’Oceano Indiano ma senza condurre azioni offensive.

Fallimentare invece l’Operazione Sophia (guidata oggi dalla portaerei Garibaldi) che nonostante i potenti mezzi non ha mai avuto gli ordini necessari a contrastare realmente i trafficanti di esseri umani in Libia.

Il fatto che Angela Merkel l’abbia definita «un esempio di coordinamento europeo» la dice lunga sulla strada ancora da percorrere per raggiungere una piena credibilità militare. Forse oggi Mark Eyskens concorderebbe nel ritenere che per smettere di essere un «verme militare» l’Europa dovrebbe prima cessare di essere un «nano politico».

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