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Quel macigno che pesa sulla produttività italiana

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L'Analisi|l’analisi

Quel macigno che pesa sulla produttività italiana

No, l’Unione europea non è morta. L’Unione europea, questa volta, c’è. Il caso Apple non è solo il caso Apple. Il caso Apple evidenzia le condizioni di asimmetria competitiva strutturale in cui opera – rispetto ai “nomadi” del fisco - il sistema industriale europeo – incluso quello italiano - che paga le imposte dove crea ricchezza.

E sancisce, con un’energia politica comunitaria insperata dopo una serie di fallimenti culminati nella Brexit, che per l'Europa è illecito fare utili e non pagare le tasse corrispondenti in un Paese, trasferirli in un secondo Paese a imposte zero che nulla c’entra con il primo e poi magari girarli – e investirli - in un terzo Paese a migliaia di chilometri di distanza da dove questo valore aggiunto si è generato. Non va bene: nemmeno se la destinazione finale di questo giro dell’oca si chiama Stati Uniti.

Sfogliando il capitolo scabroso del livello di tassazione, il caso Apple contribuisce a spalmare una sorta di patina fosforescente sul libro della produttività e della competitività italiana, che nonostante le riforme continua comunque ad avere livelli di tassazione diretta e indiretta monstre e cunei fiscali esagerati. Una poco invidiabile eccezione italiana che potrebbe ridursi strutturalmente se l’Unione europea, dopo la manifestazione di vitalità espressa dallo scontro con Apple, procedesse con il passo successivo: il lavoro complesso, ma necessario, dell’armonizzazione fiscale fra gli Stati membri.

C’è la competitività delle singole aziende, che nel caso italiano hanno soprattutto una dimensione piccola e media. E c’è la competitività dei Sistemi Paese. C’è la produttività delle grandi piattaforme industriali continentali e c’è la produttività della grandi multinazionali. Le quali giocano su più piani. Le asimmetrie fiscali, quando assumono tratti ipertrofici e cifre parossistiche, consentono una sorta di doppia “imposizione” economica e morale, politica e civile, che appare potenzialmente esplosiva: da un lato, permane la legittimità liberale di ogni Governo nello stabilire il livello di tassazione più basso possibile attraendo così i capitali finanziari e produttivi e, dall’altro, si creano le condizioni – magari formalmente motivate, nei fatti insostenibili e prive di buon senso - perché avvengano triangolazioni fra le consociate delle multinazionali, con partite di giro e passaggi infragruppo che permettono di spostare gli utili netti dove l’imposizione è minore.

Assistere allo scontro fra Antitrust comunitario e Governo irlandese in merito a 13 miliardi di euro di tasse non pagate da Apple – questa l’accusa – non può che mostrare l’esistenza di una realtà a più dimensioni. Da una parte, la possibilità per le multinazionali di inserirsi nella sagoma frastagliata dei sistemi fiscali nazionali. Dall’altra parte, il vincolo di confrontarsi con un sistema con livelli di imposizione elevatissimi, al limite dell’intollerabile, come capita alle imprese italiane: una patologia, frutto di una politica economica e tributaria esageratamente penalizzante, che spesso alimenta l’altra patologia italiana, quella dell’evasione e dell’elusione.

Sembrano mondi che non comunicano. Peccato che, poi, entrambi – il “nomade” del fisco e chi per scelta o per necessità “nomade” non è - parlino il linguaggio della concorrenza internazionale. Dove la natura della terra in cui affondano le tue radici conta non poco. Nel caso dell’Italia, questa terra è composta da elementi diversi e distinti. Il costo della burocrazia, i tempi della giustizia civile, il rapporto con la pubblica amministrazione, l’ambiente economico e sociale – l’environment, dicono quelli che parlano bene - inquinato da una illegalità irrazionale nella sua pervicacia e nella sua pervasività, il grado di distruttività del crimine organizzato che dagli anni Settanta ha attecchito ovunque.

Si tratta di fenomeni secolari con cui, in qualche maniera, per decenni il nostro Paese ha convissuto, secondo un atteggiamento di pessimistica rassegnazione e di pragmatica malinconia espresso già da uno statista come Giovanni Giolitti. Soltanto che, adesso, la competizione internazionale ha un livello di intensità che fa accelerare ogni processo, ogni selezione, ogni raffronto. I problemi strutturali restano. Il livello di tassazione sui redditi di impresa è – paradossalmente – una delle leve più semplici – copertura di spese permettendo – da adoperare per aumentare la produttività.

Per questa ragione, in un contesto internazionale in cui probabilmente le grandi multinazionali dovranno iniziare a pagare qualche tassa in più, appare quasi irragionevole che il nostro sistema industriale debba continuare a essere strozzato dalla mano pubblica che molto toglie e che poco dà. Il Paese non è ancora collassato grazie al binomio 20-80: il 20% delle imprese italiane produce l’80% del valore aggiunto nazionale e, a questa minoranza, si deve l’80% dell’export. L’obiettivo non può non essere – anche attraverso lo studio di una riduzione del livello fiscale – l’ampliamento del perimetro delle aziende con una crescente produttività, che fanno innovazione e creazione ricchezza, danno lavoro e pagano le (si auspica, più giuste e ragionevoli) tasse. Magari, grazie a una riedizione virtuosa del “vincolo esterno”, con una Unione europea davvero impegnata sulla strada dell’armonizzazione fiscale. Vale la pena. Proviamoci.

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