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Usa in campo contro i profitti portati all’estero

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ELUSIONE FISCALE

Usa in campo contro i profitti portati all’estero

L’America e il suo governo, aizzati anche dal clima pre-elettorale, sono furiosi con le autorità europee per il “verdetto” contro l’azienda-simbolo Apple sulle imposte non pagate. Uno schiaffo che ai loro occhi si aggiunge alle denunce dei negoziati sull’accordo transatlantico di libero scambio, seppur sotto attacco anche negli Stati Uniti, come troppo favorevoli all’agenda di Washington.

Il fatto è che la questione della tassazione e dell’elusione fiscale delle aziende, soprattutto di grandi corporation multinazionali, scotta e resta irrisolta nella stessa patria di Apple. L’inchiesta europea aveva in realtà preso le mosse proprio da un rapporto del Congresso del 2013 che metteva in luce i tesori trasferiti o preservati all’estero dai giganti americani con mille trucchi per evitare il rischio di una tassazione sui profitti reimpatriati tuttora prevista dalle autorità Usa. La società di Cupertino da sola, con i suoi 230 miliardi all’estero, conta per un nono dei 2.100 miliardi parcheggiati oltreconfine al riparo dal fisco americano - e spesso da qualunque fisco visto che in Irlanda nel 2014 ha pagato lo 0,005% dei suoi profitti nel Vecchio continente.

Gli Stati Uniti, inoltre, sono scesi in campo nei mesi scorsi sempre più aggressivamente contro una delle ultime strategie ideate per abbattere il carico fiscale: le fusioni da cosiddetta “inversione”.

Operazioni finanziarie, cioè, dove un leader americano orchestra di essere acquisito da un gruppo straniero, in particolare irlandese, per trasferire la sede centrale verso lidi fiscali più generosi. Si è arenata in aprile su questa obiezione, ormai diventata norma contro simili merger opportunistici, la combinazione da 160 miliardi tra le case farmaceutiche Pfizer e Allergan di Dublino.

La campagna elettorale è a sua volta testimone del rebus fiscale: il candidato repubblicano Donald Trump inveisce contro le aliquote americane definite tra le più alte al mondo e propone di abbatterle al 15% - comprese le partnership di comodo usate dagli investitori per ridurre il conto con l’Internal Revenue Service - promettendo che questo sarà un toccasana per la crescita. La democratica Hillary Clinton invoca altrettanto a chiare lettere che le tasse sulle aziende devono invece restare come sono e semmai bisogna eliminare le scappatoie e punire che fugge all’estero perché la Corporate America deve versare la sua “giusta quota” all’erario.

Il dilemma, al di là della battaglia politica, può essere così illustrato. Gli Stati Uniti, è vero, impongono formalmente salatissime aliquote federali del 35% sul reddito aziendale e, in media, una volta sommate imposte statali, il carico può superare il 40 per cento. Questo però non è l’ammontare davvero pagato. Aziende da General Electric a Verizon hanno ripetutamente argomentato con successo per imposte quasi azzerate e in qualche caso per crediti d’imposta: ben 26 grandi imprese tra il 2008 e il 2012 hanno versato zero imposte federali e 288 una media del 19,4 per cento. E complessivamente, stando all’analisi considerata più attendibile e realizzata dal Congressional Research Service, la Corporate America se la cava con una media del 27,1% sui profitti domestici - contro il 27,7% degli altri paesi Ocse - e del 12,6% sui profitti globali.

Questo sistema ha visto negli ultimi 60 anni il contributo delle aziende alle entrate federali calare di due terzi, dal 32% a poco oltre il 10%, anche se la flessione percentuale è accentuata dall’arrivo nelle casse pubbliche dei contributi per i programmi di assistenza sociale. E la necessità di una riforma efficace e portatrice di maggiori certezze è nelle cifre e sotto gli occhi di tutti. La Casa Bianca e numerosi economisti e politici, in un clima meno acceso, avevano proposto una riduzione dell’aliquota aziendale al 28% o al 25%, affiancata all’eliminazione di scappatoie o incentivi all’offshoring e a maggior cooperazione internazionale sul fronte fiscale.

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