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Usa e Turchia ai ferri corti sui curdi

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Asia e Oceania

Usa e Turchia ai ferri corti sui curdi

  • –Alberto Negri

Stati Uniti e Turchia sono ai ferri corti sui curdi siriani e la “dottrina Erdogan”. Ma la colpa non è soltanto del presidente turco, una parte di responsabilità pesa su Washington. Per ingraziarsi il leader turco - incontrollabile partner della Nato anche prima del fallito golpe di luglio - era stato proprio il vicepresidente americano Joe Biden a lanciare, durante la sua vista ad Ankara il 24 agosto, un ultimatum alle forze curde siriane di ritirarsi a Est dell’Eufrate: questi sono gli alleati degli Usa più strenui nella lotta al Califfato, certo non la Turchia che per un anno si era rifiutata di concedere la base di Incirlik per colpire l’Isis. Per non parlare di Kobane, dove i turchi a lungo hanno impedito che arrivassero aiuti agli assediati circondati dall’Isis. Quelli che in Occidente apparivano eroi contro la barbarie dei jihadisti, per i turchi sono nemici giurati.

Forse gli americani non sapevano che ad Ankara il loro ultimatum non sarebbe bastato? L’amministrazione Obama è vittima delle sue ambiguità in Medio Oriente e nel Mediterraneo e ne fanno le spese da anni gli alleati, dai curdi agli europei, peraltro complici della destabilizzazione. Sono questi gli sviluppi, non del tutto imprevedibili, delle sconfitte del Califfato: dal vuoto che lascia riemergono problemi incancreniti, come la questione curda e quella delle frontiere del Levante. Ai curdi fu promesso uno stato, sulle spoglie dell’Impero Ottomano, dal Trattato di Sévres del 1920. La Turchia vive con l’incubo strategico di Sévres, di vedere sorgere un embrione di stato curdo ai suoi confini che possa diventare un magnete per l’irredentismo del Kurdistan turco. Questa è la “linea rossa” di Ankara, che appena ha avuto il via libera Usa non ha esitato a intervenire per spezzare la continuità territoriale dell’area curda, una fascia di centinaia di chilometri dall’Iraq fino al Mediterraneo controllata dal Pyd, Partito dell’Unione democratica, e dall’Ypg, le Unità di protezione del popolo, branca combattente che si avvale del sostegno del Pkk, l’organizzazione della guerriglia e del terrorismo, fondata in Turchia nel 1978 da Abdullah Ocalan.

Ed è così che il Pentagono è stato costretto ieri a rendere pubblico un comunicato scritto in cui si afferma che sono «inaccettabili e destano profonda preoccupazione» i raid di Ankara contro i curdi, sotto attacco sul terreno dell’Els, formazione armata dell’opposizione siriana assai labile e controversa, longa manus della Turchia in Siria che si è impadronita di Jarablus e di una manciata di villaggi. Nel comunicato si dice che i curdi si sono ritirati a Est dell’Eufrate, quindi non ci sarebbe giustificazione negli attacchi dei turchi. La Casa Bianca, intanto, rende noto che Barack Obama incontrerà il presidente turco Erdogan a margine del prossimo G-20.

Ma il disastro si è compiuto, grazie a Biden che ha legittimato, senza garanzie, l’operazione militare “Scudo dell’Eufrate”. I turchi, per il momento, non sentono ragioni nel doversi fermare. «Nessuno può dirci quali terroristi combattere», ha ribadito il ministro turco per gli Affari Ue, Omer Celik. Gli Stati Uniti dovrebbero mantenere la parola data e costringere i curdi siriani a ritirarsi a Est dell’Eufrate, ha rincarato il vice premier Numan Kurtulmus.

È questa la “dottrina Erdogan” che in un discorso a Gaziantep ha ribadito che la «Turchia non si arrenderà al terrorismo e userà la stessa determinazione contro lo Stato islamico e contro i curdi siriani». I ribelli dell’Esercito libero siriano (Els), sostenuti da Ankara, hanno quindi lanciato un ultimatum ai combattenti curdi dell’Ypg: se non si ritirano da Manbij entro oggi, l’Els «entrerà in città». Sono passati non molti giorni da quando Manbij era stata liberata da una coalizione di forze arabe e curde con grande fanfara sui media che mostravano le scene di giubilo per la disfatta del Califfato.

Ma in Medio Oriente l’euforia dura l’intervallo tra una battaglia e l’altra. E la questione curda ha mille sfaccettature, certo non solo le ambiguità Usa: i russi trattano con Erdogan su tutto; Erdogan a sua volta è in affari con i curdi iracheni di Massud Barzani; l’Iran, che ha la sua consistente minoranza curda, non ha così a cuore il loro destino; ad Assad non dispiace che vengano confinati in una enclave nel Nord. Tutti sono pronti a usare i curdi, a sacrificarli, oppure a dividerli come avvenuto spesso a seconda delle necessità tattiche e strategiche. L’effimero destino di interi popoli e nazioni qui è sempre stritolato in un gioco sanguinoso: in un certo senso il dopo-Isis è già cominciato con la “dottrina Erdogan”, riedizione non troppo corretta dei vecchi manuali degli autocrati mediorientali.

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