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Che non sia solo una dichiarazione d’intenti

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L'Analisi|l’analisi

Che non sia solo una dichiarazione d’intenti

La sovrapproduzione dell’acciaio cinese è un problema che l’Unione europea e tutto il mondo occidentale hanno iniziato ad affrontare con energia e perseveranza.

Da questa questione vitale dipende, in primo luogo, un consistente pezzo del destino manifatturiero del Vecchio Continente. La scelta, emersa dal G20, di affidare all’Ocse il compito di organizzare un forum sul monitoraggio della sovrapproduzione costante e strutturale dell’acciaio – nel suo profilo globale, non limitato a una singola realtà come quella cinese – rappresenta un primo e strategico passo operativo. A cui, naturalmente, dovranno seguirne degli altri.
Ma tant’è.

Il proposito della Cina di ridurre l’export d’acciaio è per il momento una importante dichiarazione politica, ma non risulta ancora sostanziata da chiari impegni numerici e da tetti quantitativi prefissati. I leader occidentali, in buona sostanza, hanno evitato di trasformare la Cina in un obiettivo esplicito. E hanno fatto bene. Non soltanto per una ragione di rapporti di forza, ma anche per una questione di metodo: la sovraccapacità produttiva di acciaio, perché questa è la realtà, riguarda pure la Russia
e l’India.

Tuttavia, non bisogna nascondersi dietro a un dito. Finora gli equilibri di mercato internazionali sono stati condizionati soprattutto dalla Cina. Il dumping si è rivelato un’arma particolarmente utile per Pechino sia sul piano interno sia sul piano esterno.

In Cina, per esempio, ha permesso di conservare i livelli di attività di fabbriche inefficienti, senza dovere ricorrere a drastiche riduzioni occupazionali, politicamente difficili e socialmente complesse da gestire. All’estero, invece, ha consentito alla siderurgia cinese di piegare con facilità la concorrenza, guadagnando fette di mercato con la brutalità del sottocosto e l’ambiguità del vantaggio di chi, sia in Europa sia in Italia, ha potuto comprare a prezzi irrisori aggiustando così bilanci non buoni o comunque scricchiolanti.

L’essenziale, in prospettiva futura, è che il codice di verifica dell’overcapacity – e i successivi meccanismi di controllo effettivo – sia dotato di quella cogenza in grado di renderlo un autentico meccanismo di governo del mercato, fondato e ben attrezzato. Se, invece, il lavoro dell’Ocse si rivelerà alla fine poco più di un centro studi buono per fornire dati agli economisti e ai loro paper, allora tutto questo non sarà servito a nulla.

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