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Gaffe di Facebook: censura la foto simbolo della guerra in Vietnam. Poi…

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media e memoria storica

Gaffe di Facebook: censura la foto simbolo della guerra in Vietnam. Poi fa marcia indietro

La prima pagina del giornale norvegese Aftenposten (Ansa/Ap)
La prima pagina del giornale norvegese Aftenposten (Ansa/Ap)

Qualche giorno fa a Roma, Mark Zuckerberg ha detto che Facebook è «una tech company e non una media company» cioè non si occuperà mai di contenuti, non ha quindi in mente di sostituirsi ai vecchi media. Il social network dell’ultimo decennio ha però le sue regole sulla nudità e la foto storica di Kim Phuc, la bambina di nove anni che scappa da un attacco al napalm durante la guerra in Vietnam, è rimossa dalla bacheca dello scrittore norvegese Tom Egeland che viene poi sospeso. Non prima di ricevere questo avviso da Facebook: «Quasiasi foto di persone in cui si vedono completamente nudi genitali, natiche e seni femminili, sarà rimossa». L’intento di Egeland era un altro, aveva postato «sette fotografie che hanno cambiato il corso delle guerre» fra cui le piccole vittime vietnamite.

Un algoritmo di Facebook ha però considerato quella bambina nuda in lacrime per strada - simbolo delle atrocità di una guerra del secondo Novecento - appunto solo una bambina nuda, quindi un’immagine da rimuovere per tutelarne infanzia e dignità.

(Ap Photo/Nick Ut) La foto simbolo della guerra in Vietnam scattata l’8 giugno 1972

In Norvegia è nato un dibattito sulla libertà di espressione che Facebook ha negato. Molti norvegesi hanno postato la foto della piccola Kim in segno di protesta contro la censura del social network. Ha postato anche il premier Erna Solberg, ed è stata censurata anche lei. Il primo ministro che ha visto rimosso il suo post ne ha scritto un altro in cui sostiene che una grande azienda come Facebook «gestisce una piattaforma di comunicazione enorme, quindi deve prendersi delle responsabilità», esattamente quello che pochi giorni fa Zuckerberg ha detto di non voler fare. Come reazione alla censura, la premier ha postato alcune famose foto storiche col bollino nero (si veda il post qui sotto). Il senso della critica di Solberg è: se censuriamo queste immagini, i nostri figli non conosceranno la nostra storia comune.

il post con cui la premier norvergese critica Facebook

Se vi fosse ancora un po’ di confusione fra social media e giornalismo, questo episodio chiarisce la differenza. Qualche settimana fa Nick Ut, fotografo di Associated Press premio Pulitzer per quella foto, è andato in pensione. Si è data la notizia per ricordare il suo lavoro e naturalmente quella foto. Oggi davanti alle proteste norvegesi, un portavoce di Facebook replica: «Sebbene riconosciamo che questa foto sia un’icona, risulta difficile distinguere in quale caso sia opportuno permettere la pubblicazione di una foto di un bambino nudo».

Aftenposten, il quotidano più diffuso in Norvegia, oggi in prima pagina si rivolge direttamente al fondatore, titolo «Caro Mark Zuckerberg», e non stupisce che abbia preso a cuore la questione. Nel 2010 in piena fobia da attacco terroristico islamico in Scandinavia, questo giornale ripubblicò le famose vignette danesi su Maometto del 2006 che scatenarono incidenti diplomatici e proteste nel mondo musulmano. Stavolta attaccano Facebook. Il direttore e ceo dell’azienda editoriale, Espen Egil Hansen, scrive una lettera aperta a Zuckerberg in cui lo accusa di abuso di potere e di minacciare la libertà d’espressione e di stampa.

Il medium nuovo per antonomasia e proiettato nel futuro, appare questa volta inadeguato: la replica dell’azienda americana è burocratica e non tiene conto del contesto: «Cerchiamo di trovare il giusto equilibrio tra il permettere alle persone di esprimersi e il garantire alla community globale un’esperienza che sia sicura e rispettosa» fa sapere un portavoce di Facebook. «Le nostre soluzioni non saranno sempre perfette, ma continueremo a cercare di migliorare le nostre policy e il modo in cui le applichiamo» conclude il comunicato.

Il 30 agosto scorso su Fortune si commentava l’affermazione di Zuckerberg a Roma secondo cui Facebook è una tech company e non una media company, il titolo «Sorry Mark, ma Facebook è una media company». La differenza non è banale. Fra le varie opinioni nell’articolo anche il tweet di Emily Bell, direttrice del Tow Centre per il giornalismo digitale alla Columbia University: «Non importa se Facebook non crede di essere una media company - scriveva -, ne assolve in tutto e per tutto le funzioni». Dieci giorni fa i giornalisti avvertivano insomma che con gli onori mondiali sarebbe presto arrivato anche qualche onere.

Gli uomini di Facebook hanno infatti capito, in serata l’azienda ha diffuso un altro comunicato con cui faceva marcia indietro sulla bambina bruciata dal napalm. L’approccio è sempre burocratico, l’opposto dei nostri post, ma si ammette «normalmente si può presumere che la foto di una bambina nuda è pornografia e viola i nostri Community Standards, in alcuni paesi può essere qualificata anche come immagine pedopornografica. Ma in questo caso riconosciamo la storia e l’importanza mondiale dell’immagine icona che documenta un particolare momento nel tempo». Nei prossimi giorni la foto di Kim tornerà sulle bacheche del mondo, Facebook promette di rivedere i meccanismi di condivisione, di impegnarsi a tutelare sempre la libertà di espressione e discutere di questi aspetti con gli editori.

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