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Alstom, torna l’interventismo dell’Eliseo

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Alstom, torna l’interventismo dell’Eliseo

In Francia scoppia un nuovo caso Alstom. E ancora una volta l’impressione è che a Parigi proprio non si riesca a separare il ruolo dello Stato regolatore e arbitro di regole moderne dell’economia (come dovrebbe essere) da quello del potere pubblico, e della politica, onnipresente, finalizzato a pesare sulle strategie industriali delle grandi imprese, anche private (come purtroppo continua ad accadere).

L’ultimo episodio di questa invasione di campo – ovviamente esasperata dal clima ormai pre-elettorale – inizia una settimana fa. Quando Alstom (31mila dipendenti nel mondo e ricavi per sette miliardi, uno dei leader del settore ferroviario in Europa) annuncia che, vista la situazione del mercato, nel 2018 verrà interrotta la produzione nel sito di Belfort, nel Sud dell’Alsazia. Dei circa 500 dipendenti, solo un centinaio – cioè gli addetti alla manutenzione – rimarrà nell’impianto. Per gli altri 400 (metà dei quali ingegneri) ci sarà la possibilità di uscire con degli incentivi o di trasferirsi nello stabilimento di Reichsoffen, sempre in Alsazia, a un centinaio di chilometri di distanza.

La decisione non rappresenta peraltro una sorpresa assoluta: a Belfort si producono locomotive per il trasporto merci e Tgv. Nel primo caso il mercato mondiale è fermo e l’ultima commessa francese è di dieci anni fa. Nel secondo, l’ultimo ordine verrà concluso appunto nel 2018 e per il momento non ve ne sono altri (e comunque il sito della Rochelle, più moderno, è ampiamento in grado di farvi fronte). Lo stabilimento vive di commesse internazionali, che possono più efficacemente essere gestite da altre fabbriche. Tutte cose note da anni.

Nonostante la vicenda non sia, oggettivamente, grave (si tratta di meno del 5% dei dipendenti Alstom in Francia e la società garantisce che non ci saranno licenziamenti), per il Governo e l’Eliseo la comunicazione del presidente Henri Poupart-Lafarge ha l’effetto di una bomba. Perché Belfort è la storia dell’industria ferroviaria francese, un simbolo della grandeur. Perché Alstom non ha provveduto ad avvertire in anticipo lo Stato (che in base a un accordo bizantino raggiunto in occasione della cessione del settore energia di Alstom a General Electric detiene fino alla fine dell’anno prossimo il 20% del capitale, ceduto in prestito e a costo zero da Bouygues). Ma soprattutto perché queste cose non si fanno a pochi mesi dalle presidenziali, con il Governo e il presidente in crisi di popolarità e un clima irrespirabile di tutti contro tutti (basti citare gli scomposti attacchi del ministro dell’Economia Michel Sapin al suo predecessore Emmanuel Macron, ora potenziale nemico nella corsa alla presidenza, a suo tempo titolare del dossier Alstom). A maggior ragione quando il leader della destra, l’ex presidente Nicolas Sarkozy, può vantarsi, più o meno a ragione, di aver salvato l’azienda nel 2004.

Ecco quindi la convocazione di Poupart-Lafarge all’Eliseo (sabato scorso) e un vertice d'emergenza, sempre all’Eliseo, lunedì mattina. Come se si trattasse di una crisi gravissima, come se ci fosse un rischio per il Paese.

François Hollande – da Bucarest, dov’era in visita ufficiale! – ha assicurato che «Belfort non chiuderà». Così come il premier Manuel Valls, mentre il sottosegretario ai Trasporti, Alain Vidalies, si è spinto a promettere che «Belfort rimarrà per sempre quello che è oggi».

E il mercato? Beh, quello è un aspetto secondario. Che si può sempre piegare ai supremi interessi della politica, non certo intesa come salvaguardia del bene comune. Il Governo ha quindi annunciato che entro dieci giorni fornirà delle risposte tali da indurre Alstom a salvare Belfort. Come? Spingendo i potenziali committenti – la Sncf (le ferrovie, pubbliche), la Ratp (che gestisce i trasporti della regione parigina, pubblica) e le Regioni – ad accelerare le commesse e dirigerle verso Alstom, magari in barba alle più elementari norme della libera concorrenza.

Qualora questi ordini dovessero concretizzarsi, Poupart-Lafarge ha già fatto capire di essere disponibile a rivedere la sua posizione. Ed è quindi sicuro che alla fine si troverà un compromesso. Che consentirà di dare a Belfort una boccata d’ossigeno – e di disinnescare una mina in vista delle elezioni - ma non certo a risolvere i problemi strutturali del settore.

Sembra di rivedere le scene di due anni fa. Quando l’ex presidente di Alstom, Patrick Kron, annunciò – anche in quel caso senza avvertire il potere pubblico – l’intenzione di cedere la divisione energia a General Electric. Ci fu una mezza rivoluzione, con assoluto protagonista l’allora ministro Arnaud Montebourg.

Ma poi, fortunatamente, l’operazione andò in porto. Un’operazione grazie alla quale Alstom (che, en passant, è riuscita ad acquisire il segnalamento ferroviario di Ge, vero gioiello strategico) ha cancellato i debiti, portato a 30 miliardi il carnet degli ordini, ritrovato utili e margini.

Ma per continuare ad avere i conti in ordine e rimanere un leader del settore, deve evidentemente fare delle scelte industriali. Liberamente, sulla base dell’andamento della domanda. In caso contrario tra qualche anno rappresenterà nuovamente un problema.

D’altronde basta guardarsi attorno per vedere quanti guasti ha prodotto, in Francia, l’invadenza della politica. L’elenco è lungo, dal caso clamoroso di Areva (che da gioiello del nucleare è sull’orlo del fallimento, coinvolta in un piano di salvataggio) a Air France, da Edf a Sncf, appunto. Passando attraverso i comportamenti dello Stato da azionista minoritario in tante società private, dove ha mostrato di essere più interessato alle retribuzioni degli amministratori (tema prediletto del marketing politico) che ai veri temi di strategia industriale.

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