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La lunga fedeltà alla Normale

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Europa

La lunga fedeltà alla Normale

  • –Salvatore Settis

Di Carlo Azeglio Ciampi la storia ricorderà la rigorosa figura di Governatore della Banca d’Italia, la prontezza e l’abnegazione con cui rispose alle ricorrenti crisi del Paese ricoprendo cariche di crescente importanza fino alla presidenza del Consiglio e, dal Quirinale, la strenua difesa della Costituzione repubblicana contro ogni avventurismo. Ma c’è un leitmotiv che percorre tutta la sua vita, e che solo chi non lo ha conosciuto potrebbe considerare “minore”: la centralità della formazione e della cultura nella panoplia dei doveri civici, nella capacità di fare scelte informate come cittadino, in una vitale etica della comunità civile. Su questa strada, il nodo decisivo, l’imprinting di una vita al servizio del Paese, furono gli anni alla Scuola Normale Superiore di Pisa, che egli cento volte ricordava come un vero titolo di nobiltà.

Normalista dal 1937 al 1941, Ciampi si laureò con una tesi su un’orazione del retore greco Favorino di Arles (II secolo d.C.) conservata solo su papiro. Suoi maestri furono il filologo Giorgio Pasquali e la papirologa Medea Norsa, e fra i suoi compagni di corso si contava, amico di una vita, un altro filologo di prima grandezza, Scevola Mariotti. Nell’emozione della sua scomparsa, che par precoce anche alla soglia dei suoi 96 anni, mi sia consentito di evocare due episodi di cui sono stato testimone. Il primo si svolse al Quirinale a metà del 1999, poco dopo la mia elezione a direttore della Normale. Ciampi, che non avevo mai incontrato di persona, volle conoscermi, e durante quel nostro primo colloquio ricordò con vivida memoria il concorso di ammissione in Normale, l’amicizia con Scevola Mariotti, il valore formativo dei seminari di Pasquali o delle lezioni di Guido Calogero. Ma più ancora della freschezza e densità di quei ricordi mi colpì il fatto che il Presidente si sentisse, per così dire, “in colpa”, per non aver perseguito fino in fondo la strada del filologo classico, dell’insegnante di greco e di latino: gli pareva di aver tradito una promessa fatta alla Scuola Normale, di non aver ricambiato quel che la Scuola gli aveva dato nei suoi anni di fecondo alunnato.

Il secondo episodio è complementare e simmetrico al primo. Il 6 dicembre 2000 il Presidente Ciampi venne in visita ufficiale alla Scuola in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi di normalista. Egli chiese allora di incontrare i normalisti dopo la cerimonia, e per un’ora si intrattenne a colloquio con essi nella Sala Azzurra della Scuola. Tanta era la cordialità, la diretta e affabile semplicità del Presidente (come di chi cerca un contatto reale, “alla pari”, con enorme curiosità umana verso gli interlocutori), che qualche allievo della Scuola prese a dialogare con lui, normalista fra i normalisti, prendendosi qualche confidenza forse eccessiva, a cui Ciampi reagiva divertito, anzi lieto. Una sola domanda e risposta vorrei qui ricordare, quando un normalista chiese al Presidente: «Ma come mai Lei, che ha studiato filologia classica, è poi passato alla Banca d’Italia?». Non dimenticherò mai la risposta di Ciampi: fattosi serio senza perdere il tono affabile di quella conversazione, «È la stessa cosa», disse. «Studiando filologia classica in Normale ho imparato una disciplina intellettuale, il rispetto dei documenti e la ricerca della verità: principî che mi hanno accompagnato alla Banca d’Italia, a Palazzo Chigi, al Quirinale».

Questa è dunque la risposta vera a quel “senso di colpa” che Ciampi pur continuò a provare (come mi ha ripetuto tante volte). Alla promessa di fedeltà che da normalista aveva fatto alla Scuola egli non ha mancato: perché il rigore, la limpidezza, l’onestà mostrate nelle altissime funzioni che ha ricoperto sono la miglior testimonianza possibile di quel che la Normale può, anzi deve, dare ai propri allievi. Non solo gli strumenti di un mestiere (di filologo o di matematico), ma il vivo senso di uno scopo alto e ben definito, render servizio al Paese, e di un metodo, la puntuale analisi dei dati e la massima esplicitazione delle ragioni che innervano ogni processo decisionale. In questo, non c’è la minima contraddizione o frattura tra il giovanissimo Ciampi che decifra e commenta il papiro di un retore greco nella romana Arles e il Presidente che dal Quirinale richiamò gli italiani alla propria identità storica e culturale, e che in più d’una occasione pronunciò severi moniti contro l’imbarbarimento che il taglio delle risorse alla cultura può provocare. Così dunque vogliamo oggi ricordarlo: come un Presidente che giunge alla politica non per la comoda strada dei partiti, ma attraverso la militanza del cittadino, del grand commis, del patriota. E che, raggiunta la massima carica dello Stato, si sforza di farne un luogo di apprendimento e di ammaestramento, anche a costo di sfidare anni difficili. Perché quella sua cultura del comprendere e dell’argomentare, così lontana da quel che vediamo accadere intorno a noi, è poi il sale della democrazia.

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