«Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei ... ci sono tre milioni di drogati. Ci sono. Sarei felice di macellarli». Non ci sono possibilità di equivocare. Le parole pronunciate dal presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, sono chiarissime (tocca semmai puntualizzare che l’Olocausto fece sei milioni di vittime e non tre). Ma Duterte, nella conferenza stampa tenuta a Davao, davanti alle telecamere schierate, ha deciso di andare sul sicuro e ha spiegato: «Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine avranno...» e ha indicato se stesso.
La guerra alla droga lanciata a giugno nelle Filippine ha già fatto circa 3.500 vittime. Quasi 40 morti al giorno, un bilancio da guerra civile come non si registrava dai tempi del regime di Marcos. E come Duterte spiega in modo chiaro, gli obiettivi dello sterminio eseguito da squadre di vigilantes oltre che dalla polizia, non sono solo gli spacciatori, ma gli stessi tossicodipendenti. Sono loro che Duterte «sarebbe felice di eliminare per salvare la prossima generazione».
L’immediata reazione del Governo tedesco, pur comprensibile, non sembra cogliere nel segno. Un portavoce del ministero degli Esteri, Martin Schaefer, ha affermato che «non è possibile fare paragoni con l’unicità dell’atrocità della Shoah e dell’Olocausto». Ma Duterte non vuole fare paragoni, punta semmai all’emulazione. È questo che stupisce: «Vuole essere spedito davanti alla Corte penale internazionale? Perché ci sta riuscendo», ha commentato Phil Robertson, vice direttore per l’Asia di Human Rights Watch. Il Congresso ebraico mondiale ha definito le affermazioni «rivoltanti». Reazioni che scivoleranno addosso al presidente filippino senza lasciar traccia.
Trattato dai media come un fenomeno da baraccone, amante delle esagerazioni, Rodrigo “The Punisher” Duterte, sta mantenendo le promesse fatte nella campagna per le presidenziali, vinte il 9 maggio, quando gridava nei suoi comizi: «Tutti voi, spacciatori e trafficanti, voi figli di puttana, vi ucciderò tutti».
Il soprannome di The Punisher, Duterte se l’era già guadagnato durante i 20 anni da sindaco a Davao (Mindanao), per i metodi spicci usati contro la criminalità e che gli erano costati l’accusa di aver utilizzato squadre della morte. Lo stesso Duterte si è vantato di aver eliminato 1.700 criminali. Ieri, interrogato dalla commissione del Senato che sta indagando sulla guerra alla droga, un sicario ha ammesso di aver fatto parte di uno di quegli squadroni, ha affermato che gli ordini di uccidere arrivavano da Duterte e si è autoaccusato di aver ammazzato più di 50 persone. Il presidente ha rigettato le accuse come «fabbricazioni».
Per sfuggire al massacro, 700mila tossicodipendenti e piccoli spacciatori si sono consegnati alle autorità. Secondo Duterte, sarebbero 3,7 milioni i “drogati” di shabu, la metanfetamina più diffusa nel Paese (31 dollari al grammo). Cifra probabilmente esagerata: i dati ufficiali si fermano a 1,3 milioni di tossicodipendenti.
La comunità internazionale ha già espresso la sua condanna. «Fanculo», è stata la replica di Duterte, che ha anche minacciato di ritirare le Filippine dall’Onu. Solo poche settimane fa ha dato del «figlio di puttana» a Obama, colpevole di voler sollevare la questione al vertice Asean in Laos di metà settembre, generando un clamoroso incidente diplomatico. Criticato dalla democrazie, Duterte, almeno a parole, cerca sponde meno sensibili alle tematiche dei diritti umani: Cina, Vietnam, Russia.
Le politiche del neo-presidente rischiano però di destabilizzare un Paese già minacciato dalla guerriglia di Abu Sayyaf, l’organizzazione integralista islamica più pericolosa e strutturata del Sud-est asiatico, che controlla porzioni di territorio nelle Filippine e che ha issato il vessillo nero dell’Isis. Secondo i media locali, giovedì, Duterte avrebbe rivelato di aver cercato di aprire un canale di dialogo con i suoi leader, durante la campagna elettorale, offrendo una qualche forma di governo federale. Per poi aggiungere che oggi, da presidente, non sarebbe più disposto a parlare di pace con Abbu Sayyaf. Di fatto ad agosto ha ordinato una escalation nelle operazioni militari.
Oggi, il peso filippino ha lasciato sul terreno il 3,9% e ha chiuso il peggior mese di contrattazioni da ottobre del 2000, spinto al ribasso dall’emorragia di capitali che ha colpito la Borsa: 274,2 milioni di dollari a settembre, con l’indice in calo del 2%. La moneta viaggia oggi ai minimi da sette anni ed è stata la peggiore tra le valute asiatiche questo mese, nonostante nel secondo trimestre dell’anno, l’economia abbia messo a segno la crescita più robusta dopo l’India.
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