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Europa prigioniera tra Orban e May

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L'Editoriale|unione, muri e divorzi

Europa prigioniera tra Orban e May

C’è coincidenza di tempi e di oltranzismo identitario tra l’Europa dell’Est e la Gran Bretagna che si prepara a lasciare l’Unione. Di mezzo, le pressioni migratorie e la persistente assenza di strategie e politiche comuni per affrontarle. La sintonia, che si allarga a Nord, ai Paesi scandinavi sempre più arroccati dentro i loro “paradisi”, erode coesione e tenuta dell’Europa. Alla lunga a serio rischio di scomposizione.

Il sollievo per la sconfitta politica di Viktor Orban in Ungheria potrebbe per questo rivelarsi fugace e soprattutto mal riposto. Non solo perché il premier pare deciso a emendare la Costituzione per rendere valido il risultato di un referendum che non ha raggiunto il quorum minimo (50%) di votanti richiesto. Non solo perché qualsiasi richiamo di Bruxelles non lo fermerebbe ma esaspererebbe, espandendolo, il sentimento di sovranità violata dalle quote obbligatorie Ue sui rifugiati nei 3 milioni di ungheresi su 8 che le hanno bocciate. Ma anche e soprattutto perché il verbo sovranista di Orban, come del resto i suoi muri, oggi trovano nell’Unione maggior seguito di quanto si voglia ammettere. Non c’è solo la Polonia di Jaroslaw Kaczynski baldanzosamente al suo fianco.

Il presidente ceco, Milos Zeman, ha appena invocato per gli immigrati economici sbarcati in Europa nel 2015 la «deportazione negli spazi vuoti del Nordafrica o nelle isole greche disabitate perché la cultura islamica è incompatibile con la società europea e per di più rischierebbe di radicalizzare i nuovi venuti». Danimarca, Svezia e Finlandia parlano meno ma non sono molto più teneri. Nei fatti. Il significato del voto ungherese va dunque ben oltre lo schiaffo politico a Orban o la conferma della solidarietà immaginaria che oggi esprime l’Unione: tocca i nervi scoperti della irrisolta “questione nazionale” che accomuna, paralizza e destabilizza l’Europa da Est a Ovest, da Nord a Sud.

La controrivoluzione nazional-identitaria che l’Est propone ai partner, insieme alla cosiddetta «solidarietà flessibile» sulle quote, riecheggia fin troppo il separatismo di Brexit nato per ragioni simili: stessa idiosincrasia verso gli immigrati, europei in questo caso, stessa ansia di rimpatrio della sovranità ceduta a Bruxelles.

Né si discosta molto dal messaggio dei vari populismi di destra e sinistra che scuotono le democrazie europee.

Non è un caso che Orban abbia deciso ai primi di luglio, 12 giorni dopo il successo di Brexit, di ricorrere alla democrazia diretta per contestare la politica europea, indicendo il referendum anti-quote e pro-sovranità nazional-parlamentare.

È invece fortuita ma sonora la coincidenza tra il responso ungherese e l’annuncio di Theresa May, la stessa domenica, della formalizzazione del divorzio dall’Ue entro fine marzo, con due punti fermi: Londra riprenderà il pieno controllo dell’immigrazione e non riconoscerà più la giurisdizione della Corte di Giustizia Ue. La Gran Bretagna, ha promesso il premier, «diventerà un paese pienamente indipendente e sovrano». E per questo è disposta a pagare il prezzo dei contraccolpi economici che già si manifestano sui mercati.

L’intercambiabilità delle frasi e delle posizioni europee di Orban e May, dove l’immigrazione declinata in tutte le sue forme diventa il detonatore utile al recupero di sovranità nazionale ai danni di quella euro-condivisa, la dice lunga sui tarli che masticano il progetto europeo e la capacità collettiva di elaborare una politica migratoria efficace e accettabile a tutti. Arrendersi equivarrebbe però a condannare l’Europa a trasformarsi a poco a poco in un grande contenitore vuoto.

Comunque la si guardi, la partita è però avvelenata. Lo dice anche l’accordo fatto con la Turchia autoritaria di Tayyip Erdogan per fermare i flussi: Realpolitik senza scrupoli in cambio della svendita di valori europei fondamentali come libertà e democrazia. Cioè altro sfregio ai Trattati, al cemento identitario di una cultura che ne ha disperato bisogno per confrontarsi e dialogare con culture diverse, fortemente ma diversamente identitarie.

Ora Erdogan pretende la liberalizzazione dei visti entro ottobre anche se non ha rispettato tutte le condizioni previste. L’uomo forte di Ankara ricatta senza pudori le debolezze europee come la vulnerabilità di Angela Merkel, che sui rifugiati si gioca la rielezione in Germania. O della Francia alle prese con l’irresistibile ascesa di Marine Le Pen.

L’equazione migratoria è diventata totalizzante nel suo impatto diretto e indiretto quanto quella altrettanto irrisolta dell’euro. Davvero tra muri, divorzi in fieri e flussi continui è lungimirante e producente usare benevolenza a Erdogan e l’opposto a Orban & Co per di più sul terreno oggi friabilissimo dei valori europei stracciati? Se vuole davvero un futuro, l’Unione oggi deve ricucire fiducia e coesione in casa. Soprattutto evitare le guerre di religione intra-europee.

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