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Il fattore Trump e le banche centrali

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L'Analisi|il commento

Il fattore Trump e le banche centrali

Donald Trump mantiene una probabilità su tre di diventare presidente. Manca solo un mese al voto e lentamente la posta in gioco sta emergendo anche per i riflessi che può avere sull'Europa. Gli analisti si sono concentrati sul Trump eversore della secolare strategia americana di governance globale, ma qualcosa di più prosaico in una presidenza Trump arriva a toccare la solidità economica dell’euro-area e di conseguenza il futuro della politica economica italiana.

È possibile che le chance di vittoria di Trump siano sottostimate dai sondaggi, come è spesso avvenuto con i candidati dei partiti populisti capaci di mobilitare nuovi elettori. Non si sa se i giovani millennials voteranno davvero per Hillary ed è difficile capire a chi andrà il voto femminile nelle province a prevalente popolazione bianca. La polarizzazione della politica americana ha fatto crescere enormemente la correlazione tra il voto per il presidente e il voto al partito nella scelta dei rappresentanti al Congresso. Così è praticamente impossibile prefigurare un risultato elettorale che, nel caso di sua vittoria, non dia a Trump anche il controllo della Camera e del Senato. A differenza di Hillary Clinton, che quasi sicuramente avrebbe a che fare con un Congresso almeno in parte ostile, Trump sarebbe in grado di realizzare la propria agenda elettorale senza eccessive resistenze da parte del Congresso.

Sulla base del programma economico presentato di recente a Detroit, Trump vorrebbe introdurre piani molto estesi di tagli delle tasse e aumenti di spesa in infrastrutture e difesa. Un programma simile potrebbe essere approvato da un Congresso a controllo repubblicano anche grazie alla tradizionale remissività dei rappresentanti democratici e alle regole di riconciliazione che richiedono per alcune misure fiscali un voto a maggioranza semplice. In una fase in cui la politica monetaria ha esaurito le sue possibilità di stimolo dell'economia, un piano di rilancio fiscale non sarebbe di per sé negativo.

Ma il programma di Trump comporta dei rischi e infatti non è stato accompagnato finora da una seria analisi di sostenibilità. Inoltre, le recenti stime del Fondo monetario vedono un aumento del debito Usa al massimo storico già quest’anno e ciò rende ancora più incerti gli effetti di un rilancio della spesa.

La domanda cruciale è come risponderà la Federal Reserve, la banca centrale americana, a un tale cambiamento della politica economica di Washington. Il mandato di Janet Yellen, la presidente della Fed, scadrà nel febbraio 2018 ed è molto improbabile che Trump ne provochi una sostituzione anticipata, pur dopo aver esercitato contro di lei e contro la Fed un attacco senza precedenti durante la campagna elettorale. Trump li ha indicati come avversari politici per aver rinviato gli aumenti dei tassi d’interesse e aver alimentato una bolla finanziaria che avrebbe mantenuto a galla l’economia durante la presidenza Obama.

In caso di vittoria di Trump, è probabile che una maggioranza dei membri della Fed veda i rischi di surriscaldamento dei prezzi per una serie di impulsi fiscali annui di oltre l’1% del Pil. I limiti all’immigrazione che il candidato repubblicano intende introdurre ridurrebbero anche l’aumento della forza lavoro con effetti sul livello dell’inflazione salariale. In un tale contesto, la Fed potrebbe anticipare i rialzi dei tassi d’interesse che ha già annunciato e accelerare il ritorno dei tassi americani verso livelli normali dopo anni di azzeramento del costo del denaro.

Le conseguenze si farebbero sentire anche in Europa. Nell’ipotesi che l’elezione di Trump non sia recepita come dirompente dagli investitori globali, almeno tre fattori - la differenza tra tassi americani ed europei, lo stimolo fiscale attivato da Washington e la possibile ripresa dell’inflazione negli Usa - giocherebbero a favore di un apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro. Le nuove ragioni di scambio tra Usa ed Europa si muoverebbero in favore delle esportazioni europee e contro quelle americane. Ma questa non sembra una conseguenza che una presidenza Trump possa accettare.

Nel corso della campagna elettorale, Trump ha puntato il dito senza requie sul commercio con l’estero e su quelli che considera gli abusi dei partner. Ha annunciato l’introduzione di imposte del 45% sulla Cina e del 35% sul Messico. Tuttavia, alzare le barriere commerciali o imporre tasse sugli scambi di merci e servizi non potrebbe essere una strategia applicabile nei confronti dell’Ue, anche se la Gran Bretagna in tale quadro potrebbe giocare il ruolo di cavallo di Troia. La strategia di Trump finirebbe per mettere pressione sui governi europei. La Germania sarebbe il primo bersaglio, come è sempre avvenuto nel secondo dopoguerra fino alla creazione dell’euro, e tanto più ora che è il principale esportatore mondiale. La pressione si rovescerebbe rapidamente sulla Banca centrale europea affinché, come la Fed, anch’essa proceda alla normalizzazione dei tassi d’interesse. Come è noto, sia in Germania sia in Francia ci sono interessi politici e finanziari che sono a favore di un’uscita della Bce da politiche monetarie molto accomodanti. L’inflazione europea, se non si tiene conto di alcuni effetti statistici, è ben lontana dal tornare all’obiettivo del 2%, ma per la Bce potrebbe diventare più difficile difendere la strategia perseguita fin qui.

È inutile sottolineare quanto sia delicato per la stabilità dell’euro-area il passaggio verso una normalizzazione dei tassi d’interesse. Finora, il periodo di azzeramento del costo del denaro non è stato utilizzato dai Paesi in difficoltà per recuperare competitività e sostenere nuovi investimenti. Non solo la questione greca è ancora aperta, ma Spagna e Portogallo hanno mancato gli obiettivi di stabilizzazione fiscale che si erano posti. Infine, secondo il Fondo monetario, l’Italia non sembra riuscire a ridurre il debito pubblico nonostante il calo degli interessi che paga su di esso.

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