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Erdogan e Putin fanno pace nel nome di Turkish Stream

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l’analisi

Erdogan e Putin fanno pace nel nome di Turkish Stream

Il disgelo, reso possibile dalle scuse presentate dal presidente turco alla Russia, era iniziato il 9 agosto scorso, quando Vladimir Putin e Recep Tayyep Erdogan si erano incontrati a San Pietroburgo tornando a chiamarsi «caro amico», e assicurando che l’asse tra i due Paesi, messo seriamente in pericolo dall’abbattimento di un caccia russo per mano delle forze aeree turche nel novembre scorso, sarebbe stato ricostituito. È quanto è avvenuto oggi: un riavvicinamento suggellato nel nome degli interessi energetici. Insieme a Istanbul, Putin ed Erdogan hanno presenziato alla firma dell’accordo che “resuscita” Turkish Stream, il gasdotto rivolto ai mercati europei che sulle prime aveva preso il posto di South Stream respinto da Bruxelles, ma era rimasto congelato dalla crisi dei mesi scorsi tra Mosca e Ankara.

L’accordo, ha dichiarato in Turchia Aleksej Miller, il capo di Gazprom, prevede la costruzione di due linee principali sul fondo del Mar Nero, prevista entro il dicembre 2019. Costo previsto, 11,4 miliardi di euro: 910 km il tratto sottomarino, 180 quello sul territorio turco, teoricamente in direzione Europa.

La normalizzazione tra Russia e Turchia passa anche dallo smantellamento delle barriere all’import di prodotti agroalimentari turchi in Russia, con la prospettiva di un accordo di libero scambio entro fine 2017, e la creazione di un fondo di investimento comune da un miliardo di dollari. Accelerazione prevista anche per i progetti nucleari tra i due Paesi, con la russa Rosatom impegnata a costrure una centrale in Turchia, ad Akkuyu: recupereremo il tempo perduto, ha detto Erdogan.

Russia e Turchia fanno la pace dopo la crisi diplomatica

Stando a Putin, i due leader ritrovati hanno discusso anche del tema più spinoso, la Siria che li vede schierati su fronti opposti: a sostegno di Bashar Assad il presidente russo, alleato delle milizie all’opposizione e a fianco degli Stati Uniti il presidente turco. Avrebbero concordato un’intensificazione dei contatti militari e questo avvicinamento, paradossalmente, avviene proprio nel momento in cui precipitano in una spirale dall’esito imprevedibile i rapporti tra gli Stati Uniti e una Russia sempre più coinvolta militarmente nello scenario siriano: l’ultima mossa è stata l’annuncio che la base navale di Tartus, unico porto russo sul Mediterraneo, diventerà permanente.

Ma l’incontro di oggi a Istanbul è solo l’ultima dimostrazione del gioco a tutto campo del Cremlino, disponibile a incontrarsi con chiunque - da Israele ai sauditi, da Assad a Erdogan - entro il perimetro delineato dall’interesse nazionale. In Siria, al di là della frontiera turca, Mosca affonda ancor più le radici dopo il fallimento della tregua su Aleppo che, se avesse avuto successo, avrebbe potuto vedere russi e americani in operazioni congiunte contro lo Stato Islamico. A Tartus, base ereditata dall’Unione Sovietica nella Siria occidentale, il viceministro della Difesa Nikolaj Pankov ha annunciato lavori di ampliamento e rafforzamento delle infrastrutture in modo da poter assistere un maggior numero di navi nel Mediterraneo. Nella base ora i russi possono contare su sistemi missilistici terra-aria S-300, a difesa anche della vicina base aerea - già permanente - di Hmeymim, presso Latakia.

«In questo modo - ha dichiarato all’agenzia russa Ria Novosti il senatore Igor Morozov, commentando gli sviluppi annunciati per Tartus - la Russia non sta soltanto rafforzando il proprio potenziale miilitare in Siria, ma nell’intero Medio Oriente». Mosca, scrivono le Izvestija, sarebbe in trattative con l’Egitto per affittare una serie di strutture militari, tra cui la base aerea di Sidi Barrani presso il confine con la Libia. E se un altro quotidiano, la Rossiiskaja Gazeta, parla di progetti per riaprire basi anche in Venezuela, Nicaragua, Singapore e Seychelles, è dei giorni scorsi l’annuncio che si sta accarezzando anche l’idea di tornare in Vietnam e a Cuba, basi abbandonate dai russi nei primi anni 2000, all’inizio della presidenza Putin.

Sviluppi destinati ad alimentare le tensioni con gli Stati Uniti: in caduta libera dal fallimento della tregua per Aleppo. Da allora, Putin ha sospeso il trattato stretto con Washington per lo smantellamento delle scorte di plutonio utilizzabile nelle armi nucleari, chiedendo in cambio di un ripensamento l’abolizione delle sanzioni imposte alla Russia per la crisi ucraina, e il ritiro degli americani dai Paesi dell’Est Europa entrati nella Nato negli anni 2000. Poi, in quello che hanno chiamato il “venerdì nero” dei rapporti tra Russia e Stati Uniti, il 7 ottobre scorso, la Duma di Mosca ha ratificato il trattato che rende permanente la presenza delle truppe russe in Siria; il segretario di Stato americano John Kerry ha invocato un’inchiesta per crimini di guerra sui bombardamenti russi e siriani su Aleppo. La giornata si è conclusa con la formalizzazione delle accuse del governo americano, ormai convinto che sia russa l’impronta sullo spionaggio informatico ai danni del Partito democratico, con l’obiettivo di interferire nella campagna elettorale americana.

A ogni mossa segue una reazione, che alza sempre più il tono del confronto e alimenta la sfiducia reciproca. Al venerdì nero è seguito un weekend in cui Serghej Lavrov, il ministro degli Esteri russo, ha parlato di «sicurezza nazionale della Russia» minacciata dalle «mosse aggressive» degli Stati Uniti, mentre la Nato denunciava il ritorno a Kaliningrad - enclave russa tra Polonia e Lituania, dunque confinante con la Ue - dei sistemi missilistici Iskander-M, in grado di trasportare armi nucleari. Nel confronto è entrata anche la Francia, che ha visto la Russia porre il veto in Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a una sua risoluzione che chiedeva di fermare i raid aerei su Aleppo.

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