Mondo

Dossier La povertà di temi nei duelli americani

  • Abbonati
  • Accedi
Dossier | N. (none) articoliSpeciale America al voto

La povertà di temi nei duelli americani

Sostanza? Poca. Nel dibattito dell'altra sera hanno dominato attacchi reciproci, superficiali, antipatici, pungenti su carattere e personalità di Hillary Clinton e Donald Trump.

Ci si può lamentare dell’assenza di un’analisi seria e approfondita delle sfide e delle tematiche aperte davanti a noi in uno dei momenti più difficili per le democrazie industriali e per la traiettoria del capitalismo. Ma dobbiamo rassegnarci: nell’era del tempo reale le elezioni si vincono o si perdono sulla definizione del carattere e delle personalità dei candidati. Soprattutto quando da una parte del tavolo c’è Donald Trump. Nel suo caso è difficile entrare nei dettagli delle tematiche: non li conosce perchÈ non li studia.

Per questo per lui è più facile rifugiarsi in un confronto “da bar”, con toni populisti che attraggono chi non ha la pazienza di soffermarsi sulla sostanza. Poteva Hillary cambiare il tono? Onestamente per lei sarebbe stato difficile. Ricordiamoci come Marco Rubio sia stato spazzato via dalle primarie per non aver risposto a un attacco personale del governatore del New Jersey Chris Christie. Rassegniamoci dunque: la posta in gioco nell’era di Internet e delle reazioni collettive immediate è troppo alta se una percezione epidermica può determinare l’esito di un’elezione.

Detto questo, la sostanza, l’analisi delle risposte e del tono, restano. Forse più nel dopo dibattito che durante il dibattito. E domenica notte Trump, che ha fatto meglio del primo dibattito e attutito l’impatto del video scandalo garantendosi la sopravvivenza, ha commesso un errore. Si è addentrato nel terreno scivoloso della minaccia: annunciare la nomina di un procuratore per mandare Hillary in prigione se vincerà la Casa Bianca, è una intimidazione che suona più adatta a una dittatura di basso rango che agli Stati Uniti d’America. Eppure, quando ha detto a Hillary «con me saresti in prigione» molti hanno sorriso. In realtà è stato un boomerang. Ha fatto bene ieri il presidente della Camera Paul Ryan a dare a Trump il colpo decisivo che non era riuscito a Hillary Clinton durante il dibattito: ha annunciato formalmente che non sosterrà Trump perché deve difendere la Camera. Come dire: la battaglia per la presidenza è perduta. Ryan ha scelto di abbandonare Trump non solo per le sue volgarità, ma perché dicendo quello che ha detto sulla sua nomina di un procuratore speciale il candidato repubblicano ha mostrato di ignorare che quella nomina spetta al dipartimento per la Giustizia, non alla Casa Bianca. E che quel processo di nomina, separato, è molto severo e deve rispondere a requisiti molto stringenti sul merito, per evitare che la legge venga manipolata per ragioni politiche e non per questioni strettamente giuridiche. Ecco dunque che la sostanza bloccata alla porta del dibattito rientra dalla finestra. Oggettivamente Hillary in quel dibattito non poteva spiegare che quel diceva Trump era tecnicamente scorretto. Ma la verità è giunta lo stesso. In questo caso dall’opposizione di Hillary. Uno sviluppo che, pur con i mille problemi dell’era del tempo reale, ci dà la misura di una democrazia solida. Che Trump, ora possiamo dirlo con buoni margini di certezza, non potrà più azzoppare.

© Riproduzione riservata