Mai come in queste elezioni americane, il commercio internazionale è particolarmente dibattuto dai candidati alla presidenza. Interrompendo la sostanziale continuità bipartisan nelle politiche economiche internazionali dal Secondo Dopoguerra fino ad oggi, un’eventuale presidenza Trump denuncerebbe i trattati commerciali in essere, a partire dal Nafta con Canada e Messico, fino a prevedere un ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’Omc. Nella migliore delle ipotesi, un’eventuale presidenza Clinton bloccherebbe la ratifica della Trans-Pacific Partnership (Tpp), comprometterebbe definitivamente il negoziato per la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) con la Ue e utilizzerebbe in modo proattivo tutte le clausole di salvaguardia presenti nei trattati commerciali in vigore con la nomina di uno speciale procuratore commerciale che riporterebbe direttamente al presidente.
In un tale clima, occorre non sottovalutare il messaggio lanciato nell’ultimo rapporto semestrale dell’Amministrazione Obama appena inviato al Congresso in un contesto in cui la credibilità della Ue appare già significativamente compromessa presso i suoi partner, all’indomani del probabile collasso della ratifica dell’accordo di libero scambio e cooperazione economica con il Canada (Comprehensive Economic and Trade Agreement, Ceta) per l’opposizione del Belgio. Essendo tale rapporto anche l’ultimo dell’attuale presidenza Obama, fornisce anche una sintesi delle posizioni che l’Amministrazione, talvolta isolata, ha articolato nelle varie sedi internazionali negli ultimi anni. Sebbene l’espansione dell’economia americana prosegua a un passo non trascurabile, la stagnazione nell’economia mondiale la priva di una spinta importante per la propria crescita. In questo contesto, l’Amministrazione alza nuovamente il tono contro la Germania ritenendo che possa contribuire alla domanda aggregata mondiale in modo più cooperativo.
Lungi dal farlo, ha, invece, accumulato un avanzo delle partite correnti che, in termini nominali, è diventato il più alto del mondo e che, in proporzione al Pil, ha oltrepassato il 9 per cento nel secondo trimestre dell’anno, confermando la permanenza della Germania in una speciale lista “grigia” di partner commerciali da monitorare.
In realtà, poiché la Bce non interviene nel mercato dei cambi, se non in casi del tutto eccezionali e in modo concertato con il resto del G7, non verrà mai soddisfatta l’altra condizione per far scattare poteri sanzionatori da parte della Casa Bianca. In altre parole, l’impianto legislativo approvato dal Congresso l’anno scorso non ha trazione nei confronti dei Paesi dell’Eurozona, poiché non è verosimile che la nostra banca centrale utilizzi il tasso di cambio come obiettivo intermedio. Eppure, anche se la Germania e, con essa, l’Eurozona, possono beneficiare di questa “svista” nell’impianto legislativo congressuale, sarebbe sbagliato ignorarne le conseguenze in termini di relazioni transatlantiche per l’intera Eurozona, anche nel caso di una presidenza Clinton.
In tal senso, l’elemento politicamente galvanizzante negli Stati Uniti potrebbe essere un protratto apprezzamento del dollaro sull’euro che sinora non si è ancora materializzato in seguito alla posizione attendista della Fed di Janet Yellen che ha rinviato, almeno sino al prossimo dicembre, un eventuale aumento dei tassi. Nei prossimi mesi, l’interazione tra la normalizzazione della politica monetaria negli Stati Uniti e un eventuale rinnovo del Qe da parte della Bce cui Draghi ha accennato l’altro giorno dopo la riunione del consiglio direttivo, potrebbe, in effetti, generare una prospettiva del genere che la Germania, presumibilmente, intenderà fermamente evitare intensificando la sua opposizione al rinnovo del programma non convenzionale della Bce. Anche nell’ipotesi, del tutto astratta, che la Germania riuscisse, pure solo in parte, nell’intento e si evitasse l’apprezzamento del dollaro rispetto all’euro, rimane, tuttavia, il problema del crescente raffreddamento dei partner commerciali transatlantici verso un blocco regionale che viene percepito sempre più neomercantilista e, dopo il probabile collasso del Ceta, anche inaffidabile dal punto di vista negoziale.
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