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Il no tedesco ai cinesi e il segnale della svolta

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Europa

Il no tedesco ai cinesi e il segnale della svolta

Un’operazione societaria apparentemente di scarso peso può rappresentare il punto di svolta nell’atteggiamento della Germania, e dell’Europa, nei confronti delle acquisizioni cinesi.

Il Governo tedesco ha ritirato l’autorizzazione, già concessa, all’acquisto della Aixtron, una società che produce Led per l’industria dei semiconduttori, da parte di un fondo d’investimento cinese, e ha disposto un supplemento d’indagine. È un’operazione da 670 milioni di euro, molto più piccola di altre già andate in porto ma, con il suo intervento di ieri, Berlino ha mandato il segnale che non gli era riuscito nei mesi scorsi, quando i cinesi avevano comprato la Kuka, produttore di robot e di tecnologia avanzata per la manifattura, un asset ben più cruciale, che l’industria tedesca considera decisivo per lo sviluppo della strategia di digitalizzazione “Industrie 4.0”. Allora il Governo si era mosso con i guanti, cercando, invano, l’ingresso in campo di qualcuno, tedesco o europeo, che potesse sostituirsi ai cinesi. Stavolta, ammaestrato da quella esperienza, ha usato metodi più spicci, usando i poteri che ha a disposizione.

Del resto, la Germania deve muoversi con cautela. Il ministro dell’Economia, Sigmar Gabriel, lo stesso che ha bloccato l’operazione Aixtron, sarà in Cina la settimana prossima con una delegazione di imprenditori. E l’industria tedesca ha in Cina investimenti diretti per 40 miliardi di euro. Il mercato cinese, anche se ora si è parzialmente raffreddato, ha trainato l’economia della Germania negli anni di crisi dell’Eurozona, e rappresentato la fonte maggiore di crescita. Per di più, un intervento statale pesante come quello di ieri, in contraddizione con la decisione di appena qualche settimana fa, rischia di creare incertezze indesiderate anche in altri investitori.

L’escalation di investimenti cinesi, soprattutto in settori ad alta tecnologia, ha toccato comunque un nervo scoperto dal punto di vista politico. E non solo in Germania, dove, dopo la Kuka e la Aixtron, i cinesi hanno messo nel mirino la Osram.

L’Australia ha bloccato di recente l’acquisizione cinese di parte della rete elettrica, gli Stati Uniti sono in fase di stallo sull’ingresso della ChemChina nelle biotecnologie della Syngenta, la Gran Bretagna ha prima sospeso, poi accordato, obtorto collo, il via libera alla partecipazione dei cinesi nella centrale nucleare di Hinkley Point. Nella sola Europa, le acquisizioni di imprese da parte di controparti cinesi hanno registrato un balzo di oltre il 40% nell’ultimo anno.

In un clima in cui le frontiere nazionali hanno ripreso a contare, come dimostra la bocciatura del trattato di libero commercio fra Unione Europea e Canada e in genere il ritorno di misure protezioniste più o meno scoperte, l’“invasione” cinese diventa difficile da digerire per la politica locale. E a volte, come nel caso Kuka, si scontra anche con gli interessi dell’industria.

Sta di fatto che nessuno, se non i cinesi, si è presentato a bussare alla porta della Kuka e che, in un’altra vicenda apparentemente minore, ma che si colloca nel cuore della crisi bancaria europea, ci sono solo acquirenti cinesi per le banche portoghesi, uno degli anelli deboli del sistema.

La questione va affrontata dall’Europa. Forse anche per evitare che Berlino, pur con il suo peso specifico, si trovi ad affrontare da sola il confronto con Pechino, Gabriel ha sollecitato da tempo che sia l’Unione Europea a dotarsi di strumenti più invasivi, nel caso di mancata reciprocità (il che è certamente il caso della Cina) o di influenze indebite, di governance o finanziarie, di un Governo extraeuropeo sull’acquirente (e anche questo è spesso il caso delle società cinesi che investono in Europa).

Si tratta di un equilibrio instabile, fra la necessità di non alienare un partner importante, nel commercio e negli investimenti, da un lato, e il desiderio di non cedere pezzi decisivi dell’economia senza che ci sia una regola e uno scrutinio adeguato. Resta da vedere se un’Europa che si fa dettare la linea sui rapporti commerciali da una Vallonia sia in grado di dare risposte a un quesito più complesso come questo.

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