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Anche l’Fbi finisce nella tempesta

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L'Analisi|USA

Anche l’Fbi finisce nella tempesta

È il momento dei veleni. Ma anche di una crisi istituzionale senza precedenti in America. Per intervento dell’Fbi riemerge lo scandalo emailgate di Hillary Clinton.

E il “Reality Show” di queste incredibili elezioni americane arriva alla miscela esplosiva finale: e-mail, conflitti di interesse, sesso, menzogne, abusi di potere, depravazioni, sospetti, si intrecciano seguendo un unico filo conduttore, l’incertezza. Incertezza sulle ragioni dell’intervento dell’Fbi a dieci giorni dall’appuntamento alle urne, incertezza sull’esistenza di e-mail che possano davvero inchiodare Hillary Clinton, incertezza sull’esito elettorale. Incertezza dei mercati. Incertezza dello stesso capo dell’Fbi, James Comey: «Per ora non sappiamo granché», ha di fatto scritto al Congresso. Ma la bomba è esplosa lo stesso, facendo schricchiolare l’impianto democratico americano. Non era meglio aspettare?

«Nel dubbio astieniti» dice il vecchio proverbio. Eppure Comey nel dubbio è andato avanti. Ecco perché la crisi degli ultimi due giorni oltre che elettorale diventa istituzionale. La separazione dei poteri, cardine di questa democrazia, tutela l’autonomia dell’Fbi in cambio di un paio di contropartite, equilibrio e certezze. Esattamente il contrario di quel che è successo, Comey non ha solo introdotto improvvisi drammatici elementi di incertezza a dieci giorni dalle elezioni per la Casa Bianca 2016, ma lo ha fatto con una forte impulsività.

Per questo sia democratici che repubblicani chiedono i fatti e attaccano l’Fbi. E fanno bene, perché un’uscita di questo genere - la diffusione del sospetto e della calunnia senza possibilità di assoluzione o di conferme delle accuse “prima” delle elezioni - non è solo miscela esplosiva, ma abuso di potere. Trump sa che solo la pubblicizzazione di una e-mail devastante per Hillary potrebbe davvero aprirgli le porte della Casa Bianca. Hillary sa che senza la prova che le e-mail non contengono nulla di nuovo rischia di vedere franare la sua solida maggioranza per vincere la Casa Bianca. E se vincerà sarà anatra zoppa prima ancora di cominciare. L’unica certezza per ora è che nell’era di Internet dieci giorni sono un’eternità.

Resta un mistero: se Comey non sapeva, come ha confessato al Congresso, perché non ha atteso l’esito dell’inchiesta, la verifica delle e-mail prima di gettare barili di benzina in uno scenario politico incandescente? C’è chi dice, come Carl Bernstein, il giornalista che ha denunciato lo scandalo Watergate, che lo ha fatto perché le prove erano schiaccianti. Ma può aver anche ceduto alle pressioni di agenti disillusi dopo l’archiviazione del caso contro Hillary in luglio. Sappiamo che Comey è stato attaccato all’interno. Sappiamo che è repubblicano. Ma sappiamo anche che è al di sopra di ogni sospetto di parzialità, per questo Obama lo ha scelto. E allora? Per Comey forse ha prevalso la difesa dell’integrità e dell’autonomia del suo Bureau, la necessità di tirare dritto proprio per tutelare la separazione dei poteri ex post. Ma l’autonomia istituzionale chiede responsabilità al servizio del Paese. Che la sacrosanta separazione dei poteri abbia invece portato a irresponsabilità e al disservizio per gli americani, la dice lunga sulla crisi delle democrazie occidentali.

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