La Federal Reserve non è né potrebbe essere tra le istituzioni americane da eleggere l’8 novembre. Ma questa volta è come se lo fosse. Dalle urne uscirà non solo un nuovo inquilino della Casa Bianca, un vincitore tra Hillary Clinton e Donald Trump, ma anche un voto con ripercussioni sull’operato del presidente della Fed e la condotta della politica monetaria.
In gioco non è oggi il giudizio sulle immediate scelte di politica monetaria della chairwoman Janet Yellen e dei suoi colleghi del Federal Open Market Committee. Chiunque vinca, appaiono ormai avviate su una strada obbligata, quella di rialzi graduali nei tassi di interesse appena possibile, in sintonia con la solidità dell’economia, il risanamento del mercato del lavoro e il recupero dell’inflazione. A essere in sospeso è qualcosa di ben più rilevante: un verdetto sull’autorità e autonomia futura. Sulla necessità o meno che la Banca centrale più influente al mondo risponda d’ora in poi rigorosamente al Congresso, ben oltre periodiche testimonianze, e sottoponga le sue delicate decisioni e i suoi bilanci all’esame di parlamentari spesso rissosi e sempre con agende di partito.
È qui che lo scontro tra candidati, partiti e poteri è aperto, con Trump che chiede lo stravolgimento dello status quo. Se Clinton vede infatti nella Fed guidata da Yellen anzitutto un alleato indiretto della Casa Bianca, un timoniere capace nel pilotare i destini oggi sottotono della crescita, Trump vede invece una Banca centrale che concentra in sé troppo potere, «politicizzata» e composta di esponenti non eletti che mai risponderebbero del loro operato.
Il candidato repubblicano ha preso le mosse da questo j’accuse per lanciare la sua proposta più provocatoria: cacciare la Yellen, denunciata perché avrebbe tenuto i tassi di interesse troppo bassi per favorire i democratici, spingendola a uscire di scena prima della scadenza del suo mandato. Ha destato scalpore, durante uno dei tre dibattiti presidenziali, quando ha definito la Fed «più politica» di Hillary e pronosticato che quando alzerà davvero il costo del denaro provocherà disastri dato che sarebbe responsabile di aver spinto l’economia e i mercati in una «grande, grossa e brutta bolla».
L’assalto, che ha trovato eco in Congresso, ha costretto Yellen a difendere pubblicamente la sua azione, sottolineando che considerazioni di partito non sono mai entrate nei dibattiti della Fed. Per tutta risposta, però, Trump vuole soluzioni permanenti ai «difetti» della Fed incentrate sulla creazione di un nuovo regime istituzionale: in futuro è «di estrema importanza l’audit della Fed», verifiche formali del Parlamento e dei suoi esperti ai quali sottoporre conti e decisioni della Banca centrale.
La richiesta di una stretta supervisione della Fed non è nata con Trump ma lui ne è diventato la prima vera voce nazionale. Finora era coltivata nei ranghi libertari - e minoritari - del partito repubblicano avversi all’autorità federale e dediti ai meriti di un governo minimo, cavallo di battaglia dell’ex deputato Ron e di suo figlio, il senatore e candidato rivale di Trump alle primarie Rand Paul. Da altrettanto tempo è anche respinta dalla Banca centrale e dalla maggior parte degli economisti come estremamente pericolosa per l’autonomia della Fed, la libertà di discussione e di azione indispensabile a rivendicare credibilità sui mercati, la sua arma più efficace.
Hillary ha evitato di prendere posizione sulla Fed, affermando piuttosto che è improprio per candidati alla presidenza e per presidenti commentare gli interventi della Banca centrale. Nel rispetto di una Fed da sempre impegnata a difendere un delicato equilibrio: i suoi esponenti sono sì di nomina politica, ma il loro comportamento si sforza di rimanere accuratamente alla larga da sospetti di pregiudizi.
Per il candidato democratico la strategia è semmai quella di garantire una Fed capace di esprimere continuità con un passato che considera di sostanziale successo nella lotta alla crisi. Clinton non è sorda a richiami a favore di una migliore governance e indipendenza della Banca centrale. Ma, al contario di Trump, propone di perseguire un cambiamento attraverso riforme interne che ha definito di «buon senso» seppure «in ritardo». Su tutte, per evitare conflitti di interesse e indebite influenze di Wall Street, vorrebbero mettere nero su bianco il divieto per i banchieri di istituti privati di sedere nei board delle sedi regionali della Federal Reserve, una pratica tuttora comune. Forse non rivoluzionaria, ma sicuramente benvenuta per difendere l’autorevolezza della Fed.
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