Il terremoto Donald Trump colpisce la già terremotata globalizzazione. La vittoria di Trump alle elezioni presidenziali fa presagire un ulteriore – radicale - rallentamento dei processi di costruzione di aree di libero scambio. Con danni rilevanti per le manifatture avanzate impegnate in una transizione verso i segmenti a più alto valore aggiunto: in generale per i sistemi industriali dei Paesi europei e in particolare per il tessuto imprenditoriale dell’Italia, che ha nella riduzione dei dazi e nella definizione di standard regolatori e tecnologici comuni una ragione di sviluppo strutturale.
L’architettura della globalizzazione ha un primo pilastro nel Trans Pacific Partnership (Tpp). Il secondo pilastro è il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip). Il Trans Pacific Partnership, l’area di libero scambio attivata con dodici Paesi affacciati sull’Oceano pacifico con l’esclusione della Cina, è già stato chiuso. Adesso, servirebbe solo il sigillo finale della ratifica da parte del Congresso. Il Transatlantic Trade and Investment Partnership, invece, rappresenta l’area di libero scambio con l’Europa: sono in corso i negoziati fra gli sherpa americani e europei, questi ultimi resi peraltro più deboli dalla Brexit e dalle spinte populiste anti-euro.
Il Tpp è stato un elemento di dibattito reale e spinoso nelle elezioni presidenziali. Negli Stati Uniti il Ttip, invece, è rimasto sullo sfondo della campagna elettorale, mentre ha assunto un grande valore – nell’immaginario popolare e negli equilibri politici – soprattutto al di qua dell’Atlantico, in Europa e in Italia. Trump ha avuto nell’ostilità dichiarata per i trattati per il libero commercio uno dei suoi cavalli di battaglia nel corpo a corpo con le élite americane, sia democratiche che repubblicane. Da quello fondante e consolidato del Nafta a quello in via di ultimazione del Tpp. La ragione dell’ostilità di Trump, che adesso troverà sostanza nei provvedimenti della sua amministrazione, è la convinzione che il processo di deindustrializzazione degli Stati Uniti – con il conseguente impoverimento della classe media e del ceto tecnico e operaio a suo agio nelle fabbriche – sia dovuto alla trasmigrazione di pezzi delle fasi produttive in realtà a minore costo del lavoro.
Dal 2001, stando a Roland Berger, gli Stati Uniti hanno perso il 27% dei posti di lavoro manifatturieri, passando da 18,5 a 13,4 milioni. Nello stesso periodo, sempre secondo Roland Berger, la rotazione degli asset (dato dal rapporto fra valore aggiunto e capitale investito) è scesa da 1,1 a 0,7 e i profitti (dati dal rapporto fra Ebit e valore aggiunto) sono saliti dal 22% al 30%: negli ultimi quindici anni le fabbriche americane sono state strizzate come limoni. Con una grande pressione – reddituale, previdenziale e occupazionale – sui lavoratori.
Trump progetta di sottoporre a revisione tutti i trattati, così che le imprese “smettano” di portare lavoro in Messico e in Cina – due Paesi simbolo – e tornino a investire negli Stati Uniti: una forma di reshoring imposto e violento, in cui le asimmetrie nel costo del lavoro sono tollerate solo all’interno degli Stati Uniti. Con, addirittura, la prospettiva di uscire dal Wto. In questo modo, il meccano della globalizzazione sarebbe smontato in una delle sue parti fondamentali. Rimane sullo sfondo, sempre più evanescente, il progetto del Ttip, che per la Commissione di Bruxelles da qui al 2027 potrebbe – avrebbe potuto - valere un aumento medio annuo dello 0,48% del Pil comunitario e dello 0,39% del Pil americano più una crescita del 28% dell’export europeo verso gli Stati Uniti e del 36,5% dell’export americano verso l’Europa.
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