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Dagli acquisti alle svendite: la giornata «pazza» dei bond

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Dagli acquisti alle svendite: la giornata «pazza» dei bond

  • –Maximilian Cellino

Tutto e (quasi) il contrario di tutto si è visto ieri sui mercati dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, soprattutto sui listini obbligazionari. Chi si è svegliato presto in Europa ha fatto in tempo a vedere un flusso di acquisti diretto su tutti i Treasury, i bond sovrani Usa, ricercati dagli investimenti essenzialmente per due motivi: una generica avversione al rischio determinata dal verificarsi dell’evento ritenuto più improbabile e tale da generare incertezza negli investitori; una specifica riconsiderazione della politica monetaria della Federal Reserve, che il prossimo 14 dicembre potrebbe ancora una volta rimandare il tanto atteso rialzo dei tassi, l’unico del 2016 e a un anno di distanza dal precedente.

Chi invece avesse evitato di guardare i monitor per gran parte della giornata si sarebbe trovato di fronte a uno scenario in gran parte differente: degli acquisti sui titoli di Stato americani è rimasta pochissima traccia e solamente sulle scadenze più brevi, i rendimenti a partire dai tre anni in poi si sono invece impennati per crescere anche di oltre 10 punti base sul decennale (il cui tasso ha superato il 2 per cento).

È dunque stato sufficiente il primo discorso pubblico di Trump da presidente, molto più rassicurante rispetto ai toni fuori dalle righe utilizzati fino a due giorni prima in campagna elettorale, per sciogliere d’un colpo le tensioni? Difficile da stabilire, ciò che è invece certo (e lo si è visto anche dall’apertura di Wall Street) è che gli investitori hanno avuto una gran fretta di voltare pagina e mettersi alle spalle un periodo non proprio dei più edificanti per la politica americana. E lo hanno fatto concentrandosi maggiormente sui possibili effetti a medio-lungo termine del programma del nuovo presidente, o quantomeno su quello che traspare dalla sua campagna elettorale.

«A far cambiare direzione ai mercati è stata la maggiore prospettiva di tagli fiscali e la serie di misure generalmente più favorevoli alla crescita inglobate nelle politiche di Trump e anche l’acquisizione del controllo del Congresso da parte dei repubblicani», conferma James Athey, gestore obbligazionario di Aberdeen, che sottolinea come per effetto di tutto questo «i mercati stiano già assumendo l’inflazione degli Stati Uniti è destinata a salire». E il fatto che si crei maggior debito aumentando la spesa fiscale e si contribuisca a un surriscaldamento dei prezzi, per dirla con le parole di Laurence Boone, capo della ricerca di Axa Investment Managers, porta a pensare che «i banchieri saranno propensi a un più rapido rialzo dei tassi rispetto a quanto sarebbe accaduto in caso di una presidenza Clinton» e giustifica quindi il rialzo dei tassi Usa a medio-lungo periodo.

Nel breve invece la situazione è ancora più incerta: restano ancora diversi (ma non tutti) gli analisti disposti a credere che l’elezione di Trump possa bloccare la Fed a dicembre, di qui la limatura dei rendimenti a due anni. Dopotutto ciò che è in definitiva avvenuto ieri sul mercato Usa non va altro che nella direzione seguita dall’obbligazionario da un paio di mesi a questa parte, cioè l’irripidimento della curva dei tassi.

In un contesto simile, il tema della fuga dal rischio sembra essere passato in secondo piano sull’obbligazionario, se si eccettua il caso del Bund tedesco che è rimasto l’unico (o quasi) bene rifugio sull’obbligazionario. E ovviamente si inserisce l’allargamento dello spread italiano, certo molto meno pronunciato che al mattino (quando aveva abbondantemente superato quota 160) ma ugualmente evidente: in vista del referendum costituzionale del 4 dicembre il rischio politico, e gli occhi dei mercati, si trasferisce tutto sulle nostre spalle.

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