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La sfida Usa un segnale per l’industria europea

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LO SCENARIO

La sfida Usa un segnale per l’industria europea

(Marca)
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Al termine di due giornate tra le più sorprendenti e rimarchevoli della storia recente, le prospettive economiche della presidenza Trump restano in gran parte un punto interrogativo. L’immediata e inattesa reazione euforica dei mercati finanziari; le prime dichiarazioni del presidente eletto a proposito di un grande piano per l’economia americana che rafforzi le infrastrutture e la competitività, prendendosi anche cura dei ceti danneggiati dalla globalizzazione; l’incertezza su chi potrebbe diventare il prossimo segretario al Tesoro, lasciano per ora spazio a diverse interpretazioni. Gli analisti pronosticano già che alcuni settori riceveranno una spinta dalla nuova amministrazione, dalle costruzioni al farmaceutico alla difesa, mentre altre potrebbero subire contraccolpi negativi, dalle information technology alle energie alternative. Ma sembra troppo presto per trarre conclusioni in tal senso.

Quel che è emerso dalla campagna di Trump e dalla composizione delle constituencies che lo hanno condotto alla Casa Bianca, è la cifra di un “pragmatismo patriottico” che rimette al centro dell’agenda Usa la manifattura come cuore dell’interesse nazionale. In questo, facendo anche propria almeno a parole una retorica anti-Wall Street che attraversa da molti anni la politica americana nelle sua versioni di destra come di sinistra. Come tutto questo si tradurrà in una riforma del settore finanziario è ancora incerto e poco chiaro, anche se un ritorno alla separazione tra banche d’investimento e banche commerciali stile Glass-Steagal Act è assai improbabile specie se al Tesoro andrà un uomo della finanza. Più facile invece prevedere un’attitudine poco favorevole sia al multilateralismo commerciale, peraltro già in profonda crisi, sia al regionalismo economico dei grandi blocchi e dei grandi trattati che hanno supplito alla stasi della Wto negli ultimi decenni, dal Nafta al Ttp tra Usa e Paesi asiatici, al Ttip in discussione tra le due sponde del Nord Atlantico e che si trasformerà nella migliore delle ipotesi in accordo commerciale meno stringente (ma forse meno difficile da approvare).

L’Europa si troverà di fronte un alleato poco propenso a facili concessioni, intenzionato intanto a ridurre il contributo americano alle spese della Nato dal 45% al 37% del totale e che insisterà affinché il Vecchio continente aumenti da subito il suo contributo. Si troverà di fronte un partner commerciale che invocherà la clausola nazionale per una serie di settori considerati strategici e non sarà disposto a negoziare sugli standard ambientali e igienico-sanitari con la stessa disponibilità dell’amministrazione Obama. Per gli altri grandi attori del sistema economico globale, in primo luogo la Cina, le trattative con i nuovi repubblicani al potere si faranno più aspre a partire dalle procedure anti-dumping e dalla valutazione sfavorevole degli interventi cinesi sul mercato dei cambi. L’implementazione dell’Ita (Information technology agreement) tra Cina e Stati Uniti per tagliare di un terzo i dazi sugli scambi di prodotti ad alta tecnologia tra i due Paesi, ad esempio, potrebbe forse tornare oggetto di negoziati sui tempi e modi di applicazione.

Sta scadendo il tempo per l’Unione europea per utilizzare e valorizzare a pieno quell’asset immenso costituito da un mercato interno di quasi mezzo miliardo di consumatori con un reddito medio elevato, anche al netto delle crescenti disparità. I progetti di Trump rischiano di ridicolizzare un Piano Juncker per gli investimenti Ue che non sembra mai davvero decollato. Solo la consapevolezza di porre la manifattura europea al centro dell’azione manderebbe un segnale chiaro a partner sempre più conflittuali sulla determinazione europea a scommettere sul futuro, invece di aggrovigliarci sul passato e sulle controversie minute del presente. In attesa che l’Europa fornisca davvero quel segnale, la lezione americana per gli attori economici italiani è che non si può distogliere lo sguardo dalla base della nostra piramide della prosperità, quell’industria che richiede investimenti privati e un ambiente politico e culturale idoneo per diventare 4.0 e per anticipare le trasformazioni dei prossimi anni.

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