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Trumpflation, i prezzi Usa ora rischiano il surriscaldamento

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IL FOCUS

Trumpflation, i prezzi Usa ora rischiano il surriscaldamento

Trumpflation: ha già un nome il nuovo scenario economico con cui i mercati stanno facendo i conti in queste ore. Il principale effetto delle politiche , soprattutto fiscali, del nuovo presidente, sembra dover essere un aumento delle pressioni sui prezzi e quindi, nell’immediato, in un rialzo dei rendimenti e del costo del finanziamento per l’Amministrazione.

È questo, probabilmente, il punto nodale. Non è detto infatti che la politica fiscale di Donald Trump possa davvero avere successo dove anni di quantitative easing e di deficit federali hanno fallito, per quanto la nuova Amministrazione possa premere sull’acceleratore della politica fiscale. È vero però che le circostanze sono cambiate e l’inflazione americana sembra in ogni caso destinata a salire. Nell’immediato è però più probabile che i rendimenti rispondano alle deteriorate condizioni di sostenibilità del debito Usa che a vere pressioni inflattive.

Le priorità di Trump sembrano andare in due direzioni. Una, immediata, sembra essere quella dell’aumento delle spese per infrastrutture: un passaggio necessario, che potrebbe costare - secondo le stime del Fondo monetario internazionale - dai 5 ai 10 punti di pil in dieci anni. La promessa è stata ripetuta nel discorso della vittoria, subito dopo le elezioni e l’intervento sembra oggettivamente urgente.

La seconda, meno rapida, va verso il taglio delle imposte, per i cittadini e le imprese. L’impatto delle promesse elettorali è stato calcolato in 2.600 miliardi di dollari - circa il 30% del pil... - in dieci anni. Insieme, le due misure di politica fiscale si tradurrebbero allora in un aumento del deficit e del debito, oggi pari al 107% del Pil. Un aumento dei rendimenti, per registrare i maggiori rischi di sostenibilità, è quindi molto probabile.

La Federal reserve, per quanto oggi osteggiata da Trump, potrebbe in queste circostanze rivelarsi invece una sua sostenitrice. Un rialzo dei tassi troppo rapido sembra infatti da escludere in ogni caso, se non altro per il conseguente calo che scatenerebbe nelle quotazioni dei titoli di Stato, anche quelli acquistati dalla stessa banca centrale. L’Amministrazione potrebbe allora godere di un costo del credito relativamente più basso del dovuto. Anche se questa scelta avrebbe un effetto negativo: la politica monetaria non riuscirebbe a compensare l’effetto inflattivo della politica fiscale, e il risultato sarebbe, prima o poi, un aumento dei prezzi (che, con una banca centrale in “ritardo”, potrebbe anche sfuggire al controllo).

Un profilo inflazionistico potrebbero avere altre misure immaginabili in base alle promesse elettorali di Trump. Quelle “protezionistiche” in senso lato, per esempio. Un rimpatrio più rapido di immigrati clandestini è costoso e può determinare, soprattutto se il programma di lavori pubblici dovesse ridurre l’offerta di lavoro, un aumento dei salari - i lavoratori irregolari dovessero essere sostituiti da regolari o cittadini - e quindi della domanda, che potrebbe a sua volta far salire i prezzi.

Allo stesso modo, una svalutazione del dollaro per sostenere le esportazioni e disincentivare le importazioni creerebbe innegabili pressioni inflazionistiche; e così un eventuale incremento dei dazi. Aumentare le tariffe, però, è possibile soltanto per beni particolari, esponendosi comunque a controversie internazionali. A meno che gli Stati Uniti non decidano di uscire dalla Wto e dal sistema multilaterale del commercio internazionale: una scelta traumatica, e non rapida.

L’inflazione non sembra in ogni caso essere un problema immediato, almeno oggi. Un po’ di pressione in più sui prezzi, purché limitata e sotto controllo, potrebbe anzi essere benvenuta. Più insidioso è l’aumento dei rendimenti generato dalle nuove aspettative. Per quanto solidi, infatti, gli Usa presentano già oggi - secondo l’Fmi - un elevato profilo di rischio, legate proprio al debito pubblico: uno shock sulla crescita, sul deficit primario e soprattutto sui tassi reali può essere piuttosto rischioso.

L’anello debole del budget è il fabbisogno di finanziamenti dall’estero, pari al 33% del pil, che rende gli Usa molto dipendenti dall’estero: un fattore di cui Trump dovrà tenere conto e che potrebbe fare da freno a molte sue velleità. I suoi progetti sotto questo punto di vista sono tutti molto pericolosi. Far aumentare il deficit (che aumenta i rendimenti e deprime le quotazioni), varare una politica del dollaro debole (che riduce il valore di investimenti e cedole e scoraggia nuovi acquisti di titoli), aumentare la conflittualità commerciale con il resto del mondo significherebbe minare la fiducia degli investitori stranieri e creare problemi seri sul fronte del budget federale, e non solo.

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