Non potrebbero esserci due persone più diverse e lontane tra loro come Donald Trump ed Emmanuel Macron. Appassionato di storia e letteratura, allievo del filosofo Paul Ricoeur, buon pianista, gentile, ben educato ed elegante, protagonista di una bella e lunga storia d’amore (con la sua ex insegnante di francese e di teatro, di vent’anni più anziana di lui) che da sola sarebbe sufficiente a dimostrare cosa pensa delle donne, l’ex ministro dell’Economia si trova invece, un po’ paradossalmente e a causa di una semplificazione della lettura dell’attualità, a condividere con il neo presidente americano un certo ruolo sullo scenario politico. Quello del personaggio anti-sistema, inviso agli apparati di partito, portatore di un’offerta politica nuova e diversa. Quello, insomma, dell’outsider. Al di là delle idee, dei programmi e di un contesto sociale completamente diverso, ci sono però due aspetti fondamentali che differenziano le loro candidature. E che rendono il percorso di Macron ancora più difficile. Innanzitutto Trump ha partecipato alle primarie del suo partito. Vincendole, è diventato il candidato dei repubblicani alle presidenziali (pur costringendo molti a turarsi il naso). Ha accettato le regole del sistema. Macron ha scelto un’altra strada. Ha preferito evitare le primarie dei socialisti per provare a costruire qualcosa di assolutamente nuovo. Ha fondato un suo movimento e in tempi straordinariamente brevi – En Marche è nato lo scorso 6 aprile – sta cercando di radicarlo sul territorio, di trovare e formare dei quadri, di ottenere l’appoggio (e le firme) di parlamentari ed esponenti politici locali (tenendo presente che i socialisti verranno espulsi dal partito), reperire le ingenti risorse finanziarie necessarie. In caso di successo sarebbe qualcosa di assolutamente inedito, appunto rivoluzionario, nella storia francese. Il secondo aspetto riguarda il passato dei due uomini. Macron, come Trump, si rivolge direttamente al “popolo”, denuncia gli apparati di partito, sottolinea la distanza abissale che si è creata tra “la gente”, i cittadini, e le classi dirigenti, stigmatizza le élite. Il problema però è che Macron, contrariamente a Trump, di quella élite ha fatto parte fino a ieri. Scuole private (dai gesuiti) ad Amiens, il liceo giusto a Parigi (l’Henri IV), l’Ena (la mitica scuola che seleziona i potenti di domani, la “nobiltà di Stato”). Poi l’Ispettorato delle Finanze. Il passaggio al privato, come banchiere d’affari da Rothschild, dove incassa 2,9 milioni grazie soprattutto all’operazione Nestlé-Pfizer. L’Eliseo, da consigliere del presidente. Bercy, dove guida la politica economica del Paese e si fa notare anche per alcune dichiarazioni non proprio ortodosse, almeno per i canoni della sinistra alla quale formalmente appartiene («La Francia ha bisogno di giovani che abbiano voglia di diventare miliardari»). Ecco perché la strada dell’enfant prodige francese è tutta in salita. Una vera scommessa. A maggior ragione in un Paese profondamente conservatore e impaurito, cresciuto a pane&Stato, che in grande maggioranza vede nella globalizzazione non delle opportunità ma solo dei rischi e dei pericoli. «Vaste programme», avrebbe ironicamente detto il generale De Gaulle a proposito degli obiettivi di cambiamento radicale immaginati da Macron. Ma chissà che invece anche la Francia, pur in modo diverso, decida di fare un salto nell’ignoto. Mal che vada, per Macron potrebbe essere una prova generale in vista delle presidenziali del 2022. Quando avrà appena 43 anni.
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