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Yuan in discesa, ma non pilotata

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Asia e Oceania

Yuan in discesa, ma non pilotata

  • –Gianluca Di Donfrancesco

Donald Trump inveisce contro la Cina, colpevole di deprezzare lo yuan per “dopare” le esportazioni, e la moneta cinese scivola ai minimi da otto anni sul dollaro. Il paradosso è che una delle cause, magari non la principale, sembra proprio l’aggressiva retorica del neo-presidente.

Ieri, e per il decimo giorno di fila, la Banca centrale cinese (Pboc) ha fissato una parità centrale - attorno alla quale la moneta può oscillare del 2% - più debole rispetto al fix precedente, a 6,8692 yuan per un dollaro, da 6,8592. Per trovare un cambio più sfavorevole bisogna risalire al 9 dicembre del 2008, nel mezzo della crisi globale. Ieri, lo yuan ha finito per recuperare terreno nel corso della seduta, grazie al soccorso offerto dalle principali banche cinesi, ma il trend è chiaro.

Dall’inizio dell’anno, la divisa cinese ha perso il 5,5% sul biglietto verde e si prepara a scendere ancora di più. Hsbc ha da poco rivisto le previsioni per il 2016 da 6,8 a 6,9 yuan per un dollaro e ha portato quelle per il 2017 da 6,9 a 7,2, in linea con le stime di Standard Chartered. A trascinare il cambio non sono però le autorità cinesi, anche se una moneta più debole può far comodo a un’economia in difficoltà e potrebbe celare un messaggio di sfida recapitato a Trump. Proprio la sua conquista della Casa Bianca ha spinto ai massimi da oltre 13 anni il dollar index (l’indice che misura biglietto verde nei confronti di un paniere di valute) e ha acceso le aspettative per un rialzo dei tassi da parte della Fed già a dicembre.

Contro lo yuan giocano anche la bolla immobiliare e i flussi di capitale che abbandonano la Cina. Gli investimenti diretti esteri (Ide) delle società cinesi hanno toccato uno storico picco di 31 miliardi di dollari nel terzo trimestre del 2016, sulla stessa rotta seguita da 176 miliardi di dollari di flussi finanziari non legati al commercio o agli Ide.

Negli ultimi due anni, la Pboc, che in passato ha pilotato lo yuan verso livelli di cambio strumentali al miracolo economico cinese, ha al contrario difeso la moneta. A settembre e a ottobre, la Pboc ha “speso” 88 miliardi di dollari per arginare la pressione del mercato, uno sforzo che non si vedeva dagli scorsi dicembre-gennaio, quando le preoccupazioni sulla tenuta della crescita cinese erano massime. Alla fine di ottobre, le enormi riserve valutarie di Pechino erano “un po’ meno enormi”, scese di 45,7 miliardi di dollari a quota 3.120, il minimo da marzo 2011.

È anche grazie a questi interventi che lo yuan si sta comportando meglio delle valute asiatiche e dei Paesi emergenti da quando è iniziata l’era Trump. Dall’8 novembre, la moneta cinese ha perso l’1,2%, molto peggio è andata al ringgit malese (-4,4%) o al won sudcoreano (-3,3%), per non parlare del peso messicano (-9%) o del rand sudafricano (7,7%). Su queste divise - ma anche euro e yen mostrano la corda - pesa già lo spauracchio del protezionismo agitato da Trump, una svolta che metterebbe in crisi economie dipendenti dal commercio come quelle dell’Asia-Pacifico. Hsbc avvisa che l’ipotesi di una guerra commerciale innescata da Washington aumenterebbe la volatilità dello yuan: «I mercati saranno iper-reattivi alle parole di Trump». Mentre per Andy Seaman, di Stratton Street Capital a Londra, «la volatilità dei mercati emergenti potrebbe addirittura spingere la Pboc a un regime di cambio ancora più flessibile».

Secondo alcuni analisti, la banca centrale è intervenuta anche ieri, ma con meno convinzione. «L’impressione - spiega Liu Dongliang di China Merchants Bank - è che sia contenta di seguire il flusso. Del resto non ha senso dissipare le riserve per difendere lo yuan da un dollaro in piena corsa».

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